L’ex funzionario ministeriale Umberto D. vive con la sua misera pensione in una stanza in affitto a Roma. Oberato dai debiti e minacciato di sfratto dalla padrona di casa, Umberto trova un po’ di affetto nel suo cagnolino e nella diciottenne servetta di casa. Dopo un ricovero in ospedale, tenta invano di chiedere l’elemosina; solo e abbandonato anche dagli ex colleghi che lo trattano con indifferenza, medita così il suicidio, decidendo di gettarsi sotto un treno insieme al suo cane, che però all’ultimo scappa: Umberto lo insegue, mettendosi infine a giocare con lui nei giardini pubblici.
Dati d’archivio. Alla collocazione Za Sog R 58/3-8 troviamo sette cartelle. La cartella 58/3 contiene sette soggetti dattiloscritti con correzioni e aggiunte manoscritte: A) 5 pp., L’uomo e il cane, con firma autografa di Zavattini su ogni pagina; B) 12 pp., Umberto D. Soggetto di Cesare Zavattini; C) 12 pp., Umberto D. (Titolo provvisorio); D) copia; E) 3 pp., Traccia Umberto D.; F) 14 pp., Umberto D. (Titolo provvisorio), in carpetta azzurra; G) copia; H) 9 pp., Umberto D., in francese. La cartella 58/4 contiene una copia della rivista «Teatro Scenario» con il trattamento edito “Umberto D.” di Zavattini (Zavattini 1951a). La cartella 58/5 contiene tre varianti di scaletta dattiloscritte: A) 5 pp., Scaletta Umberto D., con nota manoscritta «No»; B) 5 pp., Scaletta, con nota manoscritta «No»; C) 3 pp., La scaletta, con note e schizzi autografi. La cartella 58/6 contiene tre sceneggiature dattiloscritte incomplete: A) 71 pp., Umberto D.; B) 73 pp., con poche note manoscritte; C) 9 pp. La cartella 58/7 contiene la trascrizione a computer (inframmezzata da fotocopie) della sceneggiatura incompleta (in italiano) di Umberto D. conservata presso la Cinémathèque Française (segnatura francese CJ1517 B198). La cartella 58/8 contiene la trascrizione a computer (inframmezzata da fotocopie) di sei fascicoli (in italiano) dattiloscritti con annotazioni autografe conservati presso la Cinémathèque Française (segnatura francese Zavattini 07-B2): i primi tre fascicoli contengono stralci sparsi della sceneggiatura di Umberto D., con ampie note e intere sequenze scritte a penna, mentre i fascicoli 4 (Prime note per la sceneggiatura), 5 (Seconde note per la sceneggiatura) e 6 (Note per i definitivi ritocchi della sceneggiatura) contengono note di regia di Umberto D. dattiloscritte e corrette a penna.
Il soggetto A, verosimilmente il più antico, presenta Umberto D. come un insegnante in pensione che manifesta per ottenere dal Governo un aumento. Figurano già personaggi come la malevola padrona di casa e il cagnolino (qui chiamato Franz); è invece assente la servetta, mentre appaiono personaggi poi abbandonati come un meschino nipote e un ex collega a cui Umberto chiede di prendersi cura del cane. Sono già presenti il problema di trovare i soldi per l’affitto, il tentativo fallito di chiedere l’elemosina e i propositi di suicidio abbandonati. Nel finale, però, Umberto torna alla vita sociale, accettando una supplenza a scuola come professore di matematica.
Il soggetto B, che qui pubblichiamo, riporta già il titolo definitivo e una nota sulla vecchiaia e l’emarginazione: «Che cos’è un vecchio? I vecchi puzzano, disse una volta un ragazzo» (soggetto B, p. 6). Rispetto al soggetto A, Umberto diventa un ex funzionario ministeriale; la padrona di casa viene descritta a tinte più fosche; si introducono la servetta diciottenne venuta dalla campagna e un casellante (che però non apparirà nel film). Nuove scene sono quella ambientata in ospedale, che ritroveremo in tutte le varianti successive e poi nel film, e quella del ragazzo incaricato di portare via il cane per annegarlo, così come la sequenza (poi espunta) in cui Umberto si reca da un avvocato al Palazzo di Giustizia per rinviare lo sfratto. Tra i tentativi di recuperare il denaro necessario troviamo la scena – inclusa nel film – nella quale Umberto offre un caffè a un conoscente per mascherare la richiesta di elemosina. Al primo proposito di suicidio viene aggiunto l’incontro con «una prostituta piuttosto malandata» (p. 13), il tentativo con il gas della cucina e quello con il treno. Compaiono anche elementi metacinematografici, quali il cinematografo coi suoni e le voci dei film sotto la finestra della stanza di Umberto, e l’incontro casuale con una troupe di cinema. La variante scelta da Zavattini per il libro a cura di Chiarini (Zavattini 1953a, pp. 21-25), ripubblicata da Manuel De Sica (1995, pp. 37-39), da MUP (Zavattini 2005a, pp. 27-33), e nel volume a cura di Caldiron (Zavattini 2006, pp. 106-110), non è presente in ACZ : è molto simile al soggetto B, ma non integra le aggiunte manoscritte ed elimina alcuni passaggi dattiloscritti, quali l’inciso sulla legge a favore dei padroni di casa; inoltre non compare la scena della polizia che cerca il vecchio Umberto presso «il muraglione dei suicidi» del Pincio (soggetto B, p. 16).
Il soggetto C è pressoché identico ma anteriore al B, che ne integra infatti le correzioni e aggiunte manoscritte, mentre il D ne è la copia. Rispetto ad A, queste varianti espandono il rapporto di Umberto con la serva incinta, e i suoi tentativi di mendicare. Come in B, il finale è meno consolatorio: Umberto non si uccide, ma non torna nemmeno a lavorare. Il soggetto E, che si presenta quasi come una scaletta, riporta sostanzialmente la stessa vicenda dei soggetti B, C, D, inserendo scene che entreranno direttamente nel film, come l’emblematico risveglio della servetta (soggetto E, p. 42). Ritroviamo «lo sciopero dei malati» (p. 43) e l’incontro con la prostituta (descritta però come «scena incerta» [p. 43]). Il finale − accompagnato dalla nota di Zavattini «Scena finale con mia considerazione sui finali del film» (p. 44) − è amaro e innovativo: Umberto si avvia al suicidio, senza che ne sappiamo l’esito. Il soggetto F è quasi uguale al B, senza integrarne però correzioni e aggiunte manoscritte, anzi con minime aggiunte; il soggetto G è una copia. I soggetti F e G riportano la dicitura «titolo provvisorio» e brevi scene poi espunte dal (successivo) soggetto B, ad esempio: «Umberto D. va da un avvocato e l’avvocato gli assicura che otterrà delle proroghe. Per dare un anticipo all’avvocato Umberto spende i suoi risparmi» (soggetto F, p. 49). Il soggetto H, infine, propone la traduzione in francese del soggetto B senza integrarne le aggiunte, ma con nuove correzioni.
Nella prefazione al soggetto edito dalla rivista «Teatro Scenario» (Zavattini 1951a), questo viene detto un «trattamento», ricavato da Zavattini nella primavera del 1950 a partire dal soggetto originario di fine 1948, e come tale viene ripubblicato nel volume curato da Chiarini (Zavattini 1953a, pp. 26-42) e successivamente per la MUP nel 2005 (Zavattini 2005a, pp. 34-56). Le note a piè di pagina danno conto dei cambiamenti rispetto alla sceneggiatura definitiva, nella quale «non vedrete questo insolito corteo [di vecchi che protestano contro le tasse sui cani], ma un corteo di vecchi che vogliono l’aumento delle pensioni. […] Umberto D. non sarà più un ex maestro elementare, ma soltanto un piccolo ex impiegato dello Stato» (Zavattini 1951a, p. 47). Tale trattamento ricalca sostanzialmente le varianti di soggetto B, F e G, anticipando però molte scene e dettagli che ritroveremo poi nel film e dando al protagonista il nome Umberto Domenico Ceruti. Grande spazio è riservato alla giovane servetta, qui chiamata Giovanna, benché la scena del suo risveglio sia raccontata solo in nota. Si introducono inoltre personaggi minori che ritroveremo nel film, come la suora e il vicino di letto di Umberto in ospedale, e figurano scene poi espunte: lo sciopero dei degenti; Palazzo di Giustizia; la prostituta del Pincio; o quando Umberto passa «davanti alla Scuola Mazzini dove lui ha insegnato tanti anni» (p. 51). Anche qui Umberto prova a chiedere l’elemosina, salvo poi vergognarsene, e come negli altri soggetti medita il suicidio in cucina col rubinetto del gas, lasciando una lettera alla padrona e una scritta oltraggiosa sulla parete. La sequenza finale ai giardini pubblici riprende il soggetto B e anticipa quella che vedremo nel film, aggiungendo però il dettaglio che il cane (qui chiamato Dick), spaventato per le intenzioni del padrone, scappa ed è quasi investito dalle auto. Infine in ACZ (Cart. rosse 443) è presente la fotocopia di una variante di soggetto, di 13 pp., dal titolo «Umberto D. Soggetto di Cesare Zavattini», dattiloscritta con poche correzioni e aggiunte manoscritte, successiva alla variante D, della quale integra le correzioni e aggiunte manoscritte, e precedente alla variante F.
La scaletta A è piuttosto discorsiva e abbastanza fedele al soggetto B e al trattamento, e si avvicina al film: la scaletta si apre su un corteo di anziani che manifestano, ma si interrompe quando Umberto si ammala. La scaletta B risulta invece monca e alquanto schematica, soprattutto nella prima parte, e si focalizza sulle location della vicenda. Come già nel trattamento, troviamo la scena − poi espunta dal film − del Palazzo di Giustizia e della Corte di cassazione, così come quelle (presenti in sceneggiatura ma eliminate nel film) dello sciopero in ospedale, del Pincio e della prostituta, e del tentato suicidio di Umberto con il gas. Viene anche brevemente presentata la scena del risveglio della servetta, che nel film assumerà un ruolo importante. La scaletta C, suddivisa in 25 episodi numerati, più lunghi e articolati, è quella più completa, poi pubblicata in Chiarini (Zavattini 1953a, pp. 43-45) e da MUP (Zavattini 2005a, pp. 57-60), senza la numerazione. Ricalca sostanzialmente il trattamento, anche nel finale, aggiungendo però la visita della servetta a Umberto in ospedale (che entrerà nel film), e mantenendo scene presenti nella scaletta B poi espunte dal film (in una di queste Umberto si reca alla «casa piccoli prestiti»). Due ulteriori scalette, manoscritte e provvisorie, sono contenute (in fotocopia) in Cart. rosse 443 (pp. 41-42). La scaletta D consiste in un elenco di scene eliminate nel soggetto definitivo e nella sceneggiatura finale: «Il cane scappa di casa (oppure serva viene a trovarlo). Cosa costa una camera? […] Lo tosa, lo medica. Il cane è malato. Il cane è morto. Addio alla camera. La sveglia dei carabinieri» (p. 41).
Le sceneggiature A e B (entrambe incomplete), se lette una di seguito all’altra − con l’aggiunta in mezzo della C, ambientata in ospedale − formano grossomodo l’intera sceneggiatura del film. La A si interrompe con la scena in cui Umberto viene portato via in ambulanza da due infermieri, ma contiene alcuni dettagli del film come la descrizione minuziosa del risveglio della servetta (pp. 61-62). La B si apre con Umberto appena dimesso dall’ospedale, e amplia la scena del canile comunale dove Umberto si reca in cerca di «Flike» (per la prima volta chiamato come nel film); presenta poi alcune scene espunte come il set cinematografico, la decisione di acquistare una rivoltella per suicidarsi, o il tentativo di suicidio con il gas in cucina. Rispetto al trattamento, la sceneggiatura B omette la scena del Palazzo di Giustizia e quella del Pincio e della prostituta, ma presenta il finale effettivo del film, con Umberto che gioca col proprio cane ai giardini pubblici. La sceneggiatura C, brevissima e incompleta, si pone idealmente tra A e B e si focalizza sulla rivolta dei malati all’ospedale, poi eliminata.
Passiamo alle due copie conservate presso la Cinémathèque Française (Za Sog R 58/7 e 58/8): la prima ricalca le sceneggiature A, B e C, interrompendosi quando Umberto lascia la propria stanza deciso a suicidarsi. Una tabella riporta le modifiche dei dialoghi della sceneggiatura. La seconda contiene invece dei promemoria di Zavattini per una maggiore definizione del carattere di Umberto, «simpatico, cordiale, con degli scatti vivaci ma sempre estremamente dignitoso e un poco timido», il quale dà prova di un «amore paterno […] verso la serva», ma si mostra infine come un «uomo deluso di tutto, che non ha più voglia di combattere» (p. 76). I fascicoli 4-6 della cartella 58/8 (Prime note per la sceneggiatura; Seconde note per la sceneggiatura; Note per i definitivi ritocchi della sceneggiatura) sono stati ripubblicati in Chiarini (Zavattini 1953a, pp. 46-51) e da MUP (Zavattini 2005a, pp. 61-67).
Pubblichiamo nel nostro volume il soggetto B, e online i soggetti A, F e H (in francese).
Nei primi mesi del 1948, Zavattini scrive all’amico Alessandro Minardi: «credo di aver scritto un nuovo soggetto non meno commovente di Ladri di biciclette (questa volta a favore dei pensionati dello Stato, guarda un po’) imperniato su un vecchio e su un cane; vedrai che mi è davvero riuscito, sono contento, vedremo chi lo realizzerà» (Zavattini 2005b, p. 166). Tale soggetto viene tratteggiato a grandi linee da Zavattini: «La prima idea fu quella di un vecchio che aveva sì un cane, ma soprattutto una figlia, per amore della quale pensava persino al delitto» (Zavattini 1951b). La prima stesura ufficiale di Umberto D. risale tuttavia al dicembre 1948, con ogni probabilità il soggetto A, L’uomo e il cane. Il 16 dicembre, nel suo diario privato, Zavattini sottolinea la tristezza del soggetto, «difficile da sopportare anche per me» (Zavattini 2022a, p. 307). Nei giorni successivi, Zavattini lo racconta a De Sica, a cui «piace molto, vorrebbe che lo tenessi lì, nel caso che Totò il buono si dimostri di lenta fabbricazione. (Gli dico di sì, ma non so tacere, oggi stesso ne ho parlato a Emmer, a Gatti, a Fellini). Parliamo dei nostri padri, lui mi racconta del sarto che prese per il bavero suo padre, io di mio padre che pochi giorni prima di morire si tirò le coltri sulla faccia e pianse davanti ai creditori fermi davanti al suo letto» (p. 307). Il 18 dicembre 1948 avviene il deposito alla SIAE del soggetto L’uomo e il cane, nel quale l’idea iniziale si è già modificata: «la figlia [della prima idea di soggetto] scomparve, restarono il vecchio e il cane, e venne alla luce la padrona di casa […] che trovò il suo spunto in un fatto che commosse tutta l’Italia: […] una padrona di casa così spietata da costringere al suicidio il suo inquilino. Ancora dalla vita ho preso il motivo per la giovane donna di servizio. Quando da Milano mi trasferii a Roma nel 1940 abitai in una camera d’affitto e conobbi questa donna di servizio che telefonava anche di notte alle caserme di Roma intrecciando rapporti con carabinieri, genieri, cavalleggeri. Era buona, candida e leggermente stupida. Chi volesse sapere la ragione del titolo, eccola qua. Il titolo nacque senza ragione […]: il mio personaggio si chiamava Umberto Domenico Ferrari, ma per modestia si accontentava di firmare Umberto D. Ferrari» (Zavattini 1951b, n.n.).
A fine aprile 1949 De Sica, per difficoltà finanziarie e produttive con Miracolo a Milano, pensa di realizzare prima Umberto D. (Zavattini 2022a, p. 323). A luglio lo stesso De Sica informa Zavattini che «Umberto D. è acquistato dagli inglesi» (p. 329), concependo quindi l’idea di ambientare il film a Londra, ma a ottobre l’intervento produttivo di Giuseppe Amato e Angelo Rizzoli è risolutivo (p. 354). In una lettera dell’aprile 1950, Zavattini comunica a De Sica di avergli appena inviato copia del trattamento, di cui si dice soddisfatto per la commistione di tragedia e umorismo, sebbene la scena del tentato suicidio di Umberto col gas non lo convinca del tutto. Dopo una settimana, Zavattini espone a De Sica alcune impressioni sul trattamento che gli ha inviato: «A me pare che l’arco del film e il personaggio ci siano. Ho descritto tutto con la mia solita sobrietà. Non ho colorito niente. […] A te Umberto ricorda tuo padre, a me ricorda il sottoscritto quando sarò vecchio». A fine maggio 1950 Zavattini annuncia che tra poco comincerà finalmente «la sceneggiatura di Umberto D», e verso metà agosto De Sica ne riceve la prima stesura, avanzando delle perplessità. Zavattini spiega per lettera a De Sica il suo tentativo «di far ancora più lento di Ladri di biciclette: cioè dare importanza a cose ancora più minime, andare nell’analitico, un soggetto, dico, esatto» (Zavattini 2022a, p. 394), anzi «rigoroso come un sonetto»; tuttavia reputa la prima variante sceneggiatoria «come qualche cosa di non definitivo […] con tanti difetti alcuni dei quali grossolani». A fine 1950 De Sica è avvinto dal lavoro zavattiniano sulla sceneggiatura (p. 451), ma Zavattini non è ancora soddisfatto, e nel gennaio 1951 si impegna in una revisione (Zavattini 2005b, p. 841). Risale al 23 gennaio 1951 la decisione di Zavattini di operare «tre grossi tagli in Umberto D.: palazzo di giustizia, la puttana al Pincio, Via Leccosa» (Zavattini 2022a, p. 406). A fine febbraio anche Amato e Rizzoli leggono la sceneggiatura revisionata, approvandola (pp. 410-411). Mentre Zavattini completa e rifinisce un’ultima versione, nel maggio 1951 iniziano le riprese, che si concludono a fine estate. È significativo anche il contributo offerto da Zavattini in fase di montaggio: a settembre 1951 – a fronte di osservazioni mosse alla sceneggiatura da parte di Alessandro Cicognini (compositore della colonna sonora) − Zavattini medita di aggiungere «qualche cosa di più del retroterra di Umberto D.», e accarezza l’idea (mai realizzata) di un nuovo incipit esplicativo della solitudine del personaggio, ambientato nel «giorno dei morti con Umberto D. che porta i fiori ai suoi cari estinti. Vediamo che mette fiori su quattro o cinque tombe, Maria Ferrari, Antonio Ferrari, Achille Ferrari: la moglie? una figlia? […] Allora Umberto ci apparirà subito degno di tutto il nostro cordiale interessamento». Non meno tribolata risulta la scelta del finale del film, che tiene impegnati Zavattini e De Sica fino al Natale 1951 (Zavattini 2022a, p. 442).
La forza del soggetto di Zavattini sta nel riproporre, a uno stadio ulteriore, l’orizzonte morale di Sciuscià e Ladri di biciclette: «In Umberto D., come negli altri copioni da me fatti per Vittorio De Sica, c’è una costante, la solitudine del personaggio, e la domanda di solidarietà che il personaggio avanza verso un mondo tanto restio ad affrontare i problemi del prossimo. […] Taluno mi accusa di crudeltà. […] Tuttavia sento che non manca mai nei miei copioni il lievito del conforto e della speranza […]. I miei personaggi hanno bisogno d’amore quant’altri mai, e addirittura lo invocano. […] Questo è il fatto che ho cercato di svolgere nella sceneggiatura nel modo che io preferisco, e cioè con semplicità, chiarezza, e con il proposito di dare un significato essenziale anche alle cose minori […]. Non so se ci sono riuscito, malgrado che il lavoro sia stato lungo anzi lunghissimo» (Zavattini 1952a, p. 8). Le dichiarazioni rilasciate da Zavattini a Gandin nel dicembre 1952 testimoniano la sua ricerca poetica: «Paisà, Roma città aperta, Sciuscià, Ladri di biciclette, La terra trema, rispecchiano il concetto del tutto raccontabile, ma sempre in un certo senso traslato, perché c’è ancora un racconto inventato, non lo spirito documentarista. In certi film come Umberto D. il fatto analitico è assai più evidente» (Zavattini 1952c, pp. 9-10). Cionondimeno, secondo Zavattini, con Umberto D. «non siamo ancora al neo-realismo. […] L’importante è che il discorso è incominciato: o lo si porta fino in fondo o si è perduta una grande occasione […]: dare al cinema la sua missione di esame, di esplorazione del reale» (p. 11). Già in fase di sceneggiatura, il 23 gennaio 1951 Zavattini matura l’idea di una sfasatura nella realizzazione di Umberto D. (Zavattini 2022a, p. 406), da lui giudicato “in ritardo” rispetto all’avanzamento della propria poetica: «Umberto D. io lo avrei fatto nel ’37, quando ho esordito. L’ho fatto dopo, l’ho fatto bene, ci ho messo dentro tutta la mia maturità espressiva di certe cose, ma non me ne fregava niente, perché Umberto D. era vecchio per me. […] io ero molto più avanti» (Zavattini in Gambetti 2009, p. 146).
Le varie fasi di lavorazione sono segnate da un complicato rapporto collaborativo tra Zavattini e De Sica, che rivendicano ciascuno la paternità di alcune scelte. Umberto D. esce al cinema Metropolitan di Bologna il 20 gennaio 1952, distribuito dalla Dear Film, costituita un anno prima da De Sica, Amato e Rizzoli per produrre Miracolo a Milano. Al botteghino il film è un insuccesso, anche all’estero; malgrado ciò, De Sica lo definisce «straordinariamente importante nella mia vita di artista e di uomo. Se dovessi rifarlo, lo rifarei, e così com’è. […] taglierei solo una scena, quella dei bambini che giocano alla fine» (De Sica 1954, p. 58). In occasione della prima del film, Zavattini dichiara: «Non si tratta di dire bello o brutto, […] si tratta solo di sapere se valeva la pena di raccontare la sua storia. Ci sono dei momenti nei quali ci vergogniamo abbastanza di non badare agli altri, e allora per farsi perdonare si fermerebbe volentieri il primo che passa e lo si prega di raccontare la sua storia. Può darsi che Umberto D. susciti di questi desideri, e allora tutto andrà per il meglio» (Zavattini 1952b, n.n.). La preoccupazione di Zavattini è di continuare con questo film il discorso avviato subito dopo la guerra, per «farci vedere la reale durata del dolore dell’uomo: non un uomo metafisico, ma l’uomo che incontriamo all’angolo della nostra strada, per cui a questa reale durata dovrà corrispondere un reale apporto alla nostra solidarietà» (Zavattini 1950e, p. 10).
Uscito in un clima di tensioni politiche, Umberto D. suscita vivaci reazioni. Celebre è l’attacco di Giulio Andreotti (allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio) sulle pagine di «Libertas» il 28 febbraio 1952, che depreca il film perché screditerebbe l’immagine dell’Italia all’estero, offrendo un «pessimo servizio alla sua patria che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale» (Andreotti 1952, n.n.). La campagna «di boicottaggio e denigrazione» (De Santi 2005, p. 229) viene sostenuta dal fronte critico cattolico: il Centro Cattolico Cinematografico accusa il film di non presentare «nessun accenno ad un benefico intervento del sentimento religioso, né alle esigenze della morale cristiana» (CCC 1952, p. 95). In una lettera indirizzata al direttore del settimanale «Il Mondo» Mario Pannunzio, Zavattini e De Sica protestano contro l’inopportunità di queste accuse prima ancora dell’uscita del film su grande scala in Italia (De Sica, Zavattini 1952). In controtendenza alla crociata cattolica, Luigi Chiarini (1952, p. 99) nota come «Umberto D. risvegli negli spettatori quei sentimenti cristiani, oggi così sopiti». Alcuni decretano la fine del cinema neorealista (Persiani 1952), all’opposto di chi − come Luigi Malerba − ravvisa nel film «il risultato più maturo di questa quasi-teoria zavattiniana […] di raccontare la realtà come fosse una storia» (Malerba 2005, p. VII). Sul fronte critico comunista, Casiraghi (1952, p. 3) chiede invece «a De Sica e Zavattini, e ai cineasti italiani, nonostante le difficoltà frapposte proprio dall’on. Andreotti e dai suoi padroni americani, […] di proseguire con coraggio sulla strada maestra dell’arte realistica», mentre Aristarco (1952b, p. 83) lamenta nel film la mancanza di un finale autentico e costruttivo.
Un elemento ricorrente sottolineato dalla critica dell’epoca (Aristarco 1952b; Ampola 1952) è la predominanza dell’apporto di Zavattini: «Mai come in questo film è venuta in primo piano la figura del soggettista-sceneggiatore. Si direbbe che De Sica abbia diretto il film per procura di Zavattini» (Gromo 1952, n.n.). Alberto Moravia afferma che, «rispetto a Ladri di biciclette, Umberto D. sembra essere forse meno ispirato, a prima vista; ma a ben guardare è più solido e più plausibile. […] tutti i particolari sono perfettamente a fuoco, tutto è detto con precisione, chiarezza e sobrietà. […] La sceneggiatura di Zavattini è tra le più attente ed epigrammatiche di questo scrittore di cinema» (Moravia 1952b, p. 45). Bazin coglie la rivoluzione stilistica compiuta da Umberto D. per mezzo di una narrazione che procede attraverso la frammentazione di episodi di vita quotidiana, con una successione dei fatti che non risponde ad alcuna necessità drammatica, e ravvisa «un puro capolavoro che senza dubbio la storia del cinema consacrerà, […] la testimonianza più crudele, più atroce nella sua benignità, di come il cinema possa influire sulla condizione umana» (Bazin 1952, p. 24). Particolarmente apprezzato da Charlie Chaplin (De Sica 1954), Umberto D. ottiene successivamente grandi riconoscimenti all’estero, tra cui una candidatura per il miglior soggetto agli Oscar del 1957.
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