Una donna arriva alla stazione Termini di Roma per fuggire da un amante (che abbandona a fatica), tornare dal marito e la figlia piccola che vivono a Trieste e con loro partire per il Venezuela. Quando l’amante la raggiunge, tra la folla della stazione i due iniziano un lungo dialogo, sapendo che separarsi vuol dire perdersi. Finiscono anche al commissariato della stazione, ma poi la donna riesce a partire.
Dati d’archivio. Collocazione Za Sog R 54/1-7 contiene due soggetti, cinque trattamenti, tre sceneggiature, varie note di lavorazione e una lettera relativa a problemi di censura. Nel fascicolo Za Sog R 54/1 troviamo il soggetto A, 3 pp. dattiloscritte, intitolato Stazione Termini. Soggetto Cinematografico di Cesare Zavattini con poche integrazioni manoscritte a matita e penna blu; il soggetto B, 4 pp. dattiloscritte, intitolate Stazione Termini. Idea di un soggetto cinematografico con poche correzioni manoscritte a penna nera e tutte le pagine firmate da Cesare Zavattini; inoltre 2 pp. dattiloscritte su carta verde/blu intestate Proposte per il finale, con il titolo manoscritto Stazione Termini. Nel fascicolo Za Sog R 54/2 troviamo il trattamento A, di 47 pp. dattiloscritte con poche correzioni a matita, nella camicia blu originale dal titolo: Stazione Termini. Soggetto di Cesare Zavattini; trattamento B, di 84 pp. dattiloscritte con numerose note, correzioni, cancellature e sostituzioni in blu, nella prima pagina c’è la nota manoscritta: «Copia dettata fino a pag. 70 da Callegari su quella di Zavattini, da pag. 70 in poi dettata da Zavattini. Copione ricorretto da pag. 1 da Zavattini» (p. 48). Inoltre il trattamento C, di 119 pp. dattiloscritte che sono però due versioni: denominiamo C1 la prima che si interrompe a metà (pp. 137-206), indicata a mano come «copia dettata da Callegari su quella di Zavattini» (p. 137), e chiamiamo C2 la versione che segue del trattamento (pp. 207-256), indicato come «copia numero 1 dettata da Zavattini», che inizia in modo diverso dagli altri perché vede Antonio a casa sua che attende l’amante, e dalla finestra la vede arrivare e poi andarsene; il racconto di C2 si interrompe nella scena al commissario della stazione, ma presenta un lungo finale manoscritto con inchiostro nero e blu con una grafia che non sembra quella di Zavattini (probabilmente quella di Chiarini); tale finale passa dattiloscritto nel trattamento B. Il trattamento più antico è C2 (pp. 207-256), riscritto parzialmente in C1, cui segue la variante B (pp. 48-136), mentre la variante A (pp. 1-47) è la versione aggiornata che accoglie le correzioni precedenti. Il trattamento D, 24 pp. dattiloscritte, è una variante in francese totalmente diversa dalle precedenti, che vede litigare i due giovani Jacques e Betty (con lei indifferente a tutto); il trattamento E, 60 pp. dattiloscritte, è la traduzione in inglese del trattamento A. I fascicoli Za Sog R 54/3-5 contengono tre varianti di sceneggiatura: la versione A, di 214 pp. dattiloscritte con note manoscritte a matita che traducono parte dei dialoghi in inglese; la B, 214 pp. dattiloscritte, è una copia di A, ma presenta piccole correzioni manoscritte ai dialoghi (in italiano). In entrambe si segue, ampliandolo, il trattamento più avanzato (variante A), e si presenta un finale in due versioni: nella prima Giovanni (che nel trattamento era Antonio) lascia passare di fronte a sé il treno dove ha aiutato a salire Maria, fino a vederlo scomparire; nella seconda variante invece inizia a correre fino a che riesce a salire sul predellino dell’ultimo vagone, come nel trattamento A. Nella sceneggiatura C, di 153 pp., dattiloscritta con numerose correzioni manoscritte (in italiano), raccolta in una carpetta intestata: «Terminal Station. Italian Screenplay. Property of: The Selznick Studio. Culver City, California», Giovanni diventa Roberto e si opta per il secondo finale, con l’uomo che riesce a salire sull’ultimo vagone del treno ormai in corsa. Nella stessa cartella si trovano altri due documenti: Dialoghi, di 44 pp. dattiloscritto con alcune battute in inglese, con diversa macchina da scrivere (forse di Truman Capote); Note per le ultime correzioni alla sceneggiatura, di 4 pp. dattiloscritte con qualche appunto manoscritto: sono aggiunte di dialogo e situazioni alle scene di Maria (nella sala della Croce rossa o in stazione con il nipote che le ha portato la valigia), o di Giovanni che le confessa il timore che lei avesse tentato il suicidio. Nella sesta cartella troviamo tre note di lavorazione: A) 2 pp. originali dattiloscritte datate «29/07/50» relative a un Memorandum per Zavattini firmato da Luigi Chiarini; B) 2 pp. originali dattiloscritte con Osservazioni di Zavattini sopra il trattamento di Stazione Termini; C) 5 pp. originali dattiloscritte con Chiarimenti di Zavattini per la sceneggiatura di Stazione Termini. Nelle due cartelle successive si trovano tre copie di 26 pp. di una lettera di Joseph Breen (capo della Production Code Administration, che applicava il Codice Hays) al produttore David O. Selznick, del 20 novembre 1952, riguardante i problemi di censura che la sceneggiatura potrebbe avere negli Stati Uniti, in particolare per la scena dell’incontro sessuale nel vagone in disuso, che va accorciata e trasformata così da «evitare che si pensi che [il ferroviere] li ha colti durante un atto di amore fisico» (p. 1) (in allegato si trova la scena al commissario in italiano con traduzione inglese a fronte).
Se il soggetto B presenta maggiori dettagli e situazioni, solo nel soggetto A vengono specificati i nomi dei protagonisti, Maria e Filippo. La variante B valorizza il ruolo della stazione: «E intorno a loro continua la vita della stazione, treni che partono e treni che arrivano, altre ansie, altre lacrime» (soggetto B, p. 5). Come dicevamo, nel trattamento C1 troviamo un finale manoscritto, ripreso dattiloscritto nel trattamento B e riscritto nel trattamento A. La versione francese (trattamento D) è più breve, mentre la versione inglese (trattamento E) si amplia.
Passando alle sceneggiature, la prima stesura è la variante C, mentre la sceneggiatura B precede la A, la quale presenta una serie di note a matita con dialoghi riscritti a mano in inglese (e la correzione del nome Alberto in Giovanni). Tutte le sceneggiature iniziano con la presentazione della donna protagonista in una situazione quotidiana, con una grande attenzione al suo conflitto interiore. Nella variante C è incupita dal parrucchiere, mentre in B e A la vediamo uscire in lacrime da un confessionale, e quando arriva davanti alla casa dell’amante nel volto «esprime un’ansia, un’angoscia crescente» (sceneggiatura A, p. 4). Oltre alle due versioni differenti del finale nelle sceneggiature A e B, una terza variante del finale si trova nelle note di lavorazione, nelle «proposte» scritte da Zavattini: qui vediamo Giovanni salire sul treno prima della partenza per regalare all’amante uno specchio, e poi la sua discesa riluttante e quasi forzata dai ferrovieri.
Pubblichiamo nel volume il soggetto B, mentre pubblichiamo online il soggetto A, le proposte di finale del soggetto C, uno stralcio delle pagine conclusive della sceneggiatura A, nonché le lunghe note di lavorazione di Chiarini e di Zavattini.
Nel già citato Memorandum per Zavattini (nota di lavorazione A, Za Sog R 54/6), Luigi Chiarini ricorda che «l’idea chiave di Stazione Termini nasce da uno smarrimento della coscienza dei due personaggi, da una totale nullificazione delle loro volontà» (p. 1), e che la stazione è il «vero protagonista contemporaneo del film [poiché, rispetto ai due amanti] li domina, li scrolla, li getta su un treno, li instupidisce, li meccanizza senza nessuna misericordia». Chiarini nei titoli del film risulta come collaboratore alla sceneggiatura, tuttavia discute con Zavattini quando il soggetto non è ancora stato venduto al produttore americano Selznick, dichiarando una paternità congiunta del soggetto: «il soggetto di Stazione Termini è tuo fino alle midolla. È anche mio fino alle midolla. Ma siccome noi siamo uomini in bilico, uomini a mezzo, uomini più o meno della stessa razza dei tuoi personaggi, ne può nascere un film da baratto o – se tu vuoi e se la fortuna ti aiuta – il film della nostra esistenza» (p. 2). Chiarini consiglia a Zavattini di trovare un valido «scenarista» (o cosceneggiatore), che sarà poi Giorgio Prosperi. Chiarini sembra parlare del film prima che sia proposto a De Sica, almeno se accettiamo la ricostruzione di quest’ultimo di aver ricevuto l’offerta di una coproduzione da Selznick, quando si trovava in America nell’agosto del 1952. Racconta De Sica: «avrebbe dovuto realizzarlo Autant-Lara con Marlon Brando ma, alla vista della stazione di Roma, Autant-Lara si era spaventato, aveva dichiarato che per girare avrebbe avuto bisogno di una stazione ricostruita in un teatro di posa. Era un soggetto molto bello, ma in verità terribilmente difficile. A me tuttavia piacciono le scommesse» (De Sica 1954, p. 58). In una lettera a Zavattini del settembre 1952, dopo una telefonata da Los Angeles, De Sica gli conferma che per Stazione Termini «il copione dev’essere ritoccato», sia per esigenze della censura americana, sia perché «la protagonista deve figurare straniera venuta in Italia per brevissimo tempo».
Nelle Osservazioni sul trattamento (nota di lavorazione B), Zavattini riassume il racconto in dieci punti, iniziando così: «Maria sta per andare dall’amante al consueto convegno e invece per una decisione improvvisa fugge in stazione – dove vuole affannosamente partire per il Nord con il primo treno che c’è pronto» (p. 3). Zavattini rileva che nel trattamento non sono «sufficientemente spiegati i movimenti psicologici dei personaggi […]. Chi sono questi due esseri l’uno affrontato all’altro in questa stazione? Non lo sappiamo. […] Comprendiamo che i due sono amanti attraverso il loro dialogo», e suggerisce di evidenziare la convinzione della donna ad andarsene e come «l’uomo, salendo sul treno, probabilmente non fa che perpetuare il suo dolore, la sua sofferenza» (p. 4). Nei Chiarimenti sulla sceneggiatura (nota di lavorazione c), Zavattini torna a riflettere sulle motivazioni dei protagonisti: la donna «si è innamorata sensualmente dell’uomo, è stata veramente travolta al punto di convincersi che [non] avrebbe più potuto fare a meno di quell’uomo. […] Ma c’è anche la bambina verso la quale la donna si sente profondamente legata come madre, una madre senza doppi fondi, una madre che ama con le viscere» (pp. 5-6), mentre l’uomo «è più giovane di lei. E anche molto serio, molto uomo, molto razionale, pur avendo una grande carica di passione. La donna gli piace enormemente, ha trovato la sua donna [ma egli] non ha il senso né della paternità né della maternità, sia perché non è padre, sia perché è qui in funzione di amante» (pp. 7-9). Fin dal soggetto notiamo quindi una chiara prospettiva valoriale nella scelta di Maria di abbandonare l’amante per tornare dalla figlia, che potremmo leggere come un rovesciamento di valori rispetto al finale del film I bambini ci guardano (De Sica, 1943), sceneggiato da Zavattini a partire dal romanzo Pricò di Cesare Giulio Viola, in cui al contrario la madre abbandonava il figlio piccolo per l’amante. Rispetto al film del 1943, tuttavia, in Stazione Termini «manca un quadro sociale di riferimento» (De Santi 2003, p. 91). Alla produzione di Graetz, cui Zavattini aveva consegnato un primo «copione», subentra la produzione di Selznick. De Santi ricorda che «le riprese apparvero subito molto travagliate e si protrassero […] per oltre due mesi», lavorando di notte con «paesaggi di treni e di persone del tutto fittizi», e che per i dialoghi era stato ingaggiato anche Truman Capote, ma si «limitò a scrivere due sole scene» (pp. 89-91). Rispetto alle varianti del finale trovate nelle sceneggiature, Zavattini scrive a De Sica a fine ottobre del 1952, rimarcando l’«ossessiva potenza di questo amore» per cui la protagonista potrebbe anche compiere una scelta tragica come buttarsi sotto un treno. Contro la proposta di Selznick (e della censura americana) che nella scena erotica nel vagone tra i due non sia in effetti accaduto nulla, Zavattini ai primi di novembre propone l’ipotesi che fino a quel momento l’amore tra i due sia stato solo «spirituale», mentre ora essi diventano veramente amanti.
Scorrendo le recensioni italiane all’uscita del film nei primi mesi del 1953, troviamo critiche perlopiù negative. Giulio Cesare Castello riferisce sulle pagine di «Cinema» di fischi ascoltati in sala durante la proiezione, rinfaccia a De Sica un’immagine della stazione Termini «profondamente falsa», mentre imputa a Zavattini (con Chiarini e Prosperi) l’errore di far divenire la stazione un «convulso e pittoresco caravanserraglio, un centro di attrazione di tante figure e manifestazioni singolari e bizzarre […] strana gente che si comporta nella maniera più incredibile» (Castello 1953a, pp. 147-149). Stilisticamente disomogeneo a detta di molti critici, il film presenta i primi piani della protagonista (la diva Jennifer Jones) filmati, su volontà del produttore, con toni morbidi e flou dall’operatore Oswald Morris, alternati a primi piani e alle riprese generali filmate invece da G.R. Aldo, l’operatore di De Sica, con una illuminazione più sobria o contrastata, ad esempio sul viso di Montgomery Clift nel campo e controcampo della scena di dialogo dei due amanti al ristorante della stazione (De Santi 2003, p. 90). Il risultato, secondo Castello, è «come un quadro dipinto a sezioni, le une ad olio e le altre ad acquarello». Nello stesso anno, su «Bianco & Nero» (rivista creata da Luigi Chiarini), il critico cattolico Nino Ghelli (1953, pp. 75-78) stronca il film per una sostanziale «insincerità dell’opera», e sembra alludere alle proposte scritte a Zavattini da Chiarini (nel suo Memorandum), quando commenta che nel film la stazione poteva essere «il teatro di vicende diverse [che] avrebbe dovuto quindi assumere la funzione di un gigantesco materiale plastico che puntualizza la dolorosa incertezza degli amanti richiamando loro ad ogni istante il senso della precarietà del loro amore» (Ghelli 1953, p. 77). Ghelli loda la prima parte del film, «ottima per sostenutezza di ritmo ed efficacia di immagini», fino al momento in cui i due amanti si ritrovano e a partire da qui «purtroppo […] il film perde coerenza e calore, si fa sommario e meccanico, frammentario e forzato […]. Il film deve quindi considerarsi del tutto fallito: troppe fratture di ritmo, troppi squilibri di stile, che denunciano le molte concessioni di ordine commerciale e le contrastanti esigenze di diversi autori: tra il banale spettacolarismo di Selznick, le lucide divagazioni letterarie di Zavattini e le intimistiche preoccupazioni sentimentali di De Sica» (p. 85). Al contrario, Tullio Kezich su «Sipario» (1953c) valorizza il tentativo di collaborazione produttiva internazionale. Anche Aristarco, su «Cinema Nuovo», salva «l’alto artigianato» del film, ma ne denuncia il fallimento: «i contributi realistici sono spesso semplici bozzetti [per cui] il film è la conseguenza diretta del compromesso, di due diverse mentalità e maniere di concepire il cinema, quella del realismo italiano e quella di evasione hollywoodiana» (Aristarco 1953c, pp. 249-250).
Lo stesso De Sica quando parla di Stazione Termini in un’intervista del 1954 lo salva come racconto, ma lamenta i molti problemi di produzione e di censura subiti, e spiega che il suo film «realizza una battuta d’arresto perché vuol essere un film d’arte realizzato con intento commerciale» (De Sica, in Faldini, Fofi 2011, pp. 290-291). Ricordiamo che in ACZ si trova (come dicevamo più sopra) una lettera di Breen a Selznick sui problemi di censura del film datata 20 novembre 1952, in cui la preoccupazione è tutta per l’incontro sessuale tra i due amanti in stazione, che per Breen non deve venire neppure suggerito. De Sica ricorda: «fu una lavorazione difficilissima. […] I guai nostri […] li passammo con la censura, anche quella mezzo americana e mezzo italiana; una cosa che andava bene qua, là non andava, e viceversa, non ci si capiva più niente […]. E perciò alla fine non si sapeva bene che cosa la protagonista volesse esattamente, una posizione morale incerta, che nocque senza dubbio al film. Se ci avessero lasciato fare, a Zavattini e a me, tutto sarebbe stato più chiaro. Il film non ha avuto il successo che si sperava; nemmeno in America, dove si aspettavano un film più “italiano”, e avevano ragione». De Sica continua: «non riesco a darmi pace del fatto che la gente abbia creduto “autentiche”, addirittura “rubate alla realtà”, tutte le scene di folla, dei treni, dell’intero traffico della stazione, insomma. Lo so, sembrerà strano che così dica un regista neorealista… Eppure mi secca che non si riconosca, o più semplicemente che non si conosca, il tremendo lavoro di ricostruzione fatto» (De Sica in Faldini, Fofi 2011, pp. 290-291). Anche Zavattini risulta insoddisfatto dopo l’uscita del film e dichiara di non considerarlo come «un documento della sua carriera neo-realista [dato che] la co-produzione (italo-americana) ha diluito fortemente il germe neo-realista che vi si trovava (esame di un tempo e di uno spazio molto limitato)» (Zavattini 1979b, p. 117). Nel ragionare su Stazione Termini, Brunetta sostiene che «il soggetto ricorda il Breve incontro di David Lean [del 1945], in versione banalizzata e più carica di effetti spettacolari» (Brunetta 2009, p. 230), e spiega come i condizionamenti economico-produttivi, con i capitali statunitensi che entrano nella produzione italiana, producano una «modifica nello stile» della regia che accomuna molti film del periodo, imponendo ai registi italiani «la massima valorizzazione dei meccanismi narrativi, divistici e spettacolari» (p. 59). Questo accade anche nel compromesso commerciale tra Selznick e De Sica, con quest’ultimo che «accetta anche un diverso tipo di controllo della produzione sul processo realizzativo dell’opera» (p. 230). In effetti, secondo Brunetta, la «forte presenza di strutture professionali» pone De Sica in una «condizione così inedita, e di tale espropriazione del proprio lavoro intellettuale, da rendere tanto poco firmata e riconoscibile quest’opera nella sua filmografia complessiva» (p. 59). Ricordiamo che il produttore Selznick fece tagliare e rimontare il film per il mercato americano, intitolandolo Indiscretion on an American Wife (De Santi 2003, p. 93).
ND/AS