Durante il proprio funerale, l’umile Carmine decide di tornare fra i vivi per recuperare il suo cappotto rubato, a cui era molto affezionato. Dopo aver terrorizzato l’antipatico sindaco, Carmine ne ottiene l’aiuto, scomodando polizia ed esercito. Il fantasma di Carmine incontra infine il ladro, rinunciando però a ogni proposito di vendetta.
Dati d’archivio. Alla collocazione Za Sog R 16-17 troviamo due cassette, con quattro e con due cartelle. Nella cartella 16/1 sono conservate quattro varianti di soggetto dattiloscritte: A) 1 p., dal titolo Il cappotto – Premessa con relativa fotocopia; B) 1 p., Appunto, Premessa, con note manoscritte e fotocopia; C) 2 pp. solo manoscritte fronte/retro, Cappotto; D) 6 pp., Il cappotto. La cartella 16/2 contiene quattro varianti di scaletta dattiloscritte: A) 2 pp., Primo tempo; B) 2 pp., con note manoscritte e fotocopia; C) 3 pp., con note manoscritte; D) 4 pp., con note manoscritte. La cartella 16/3 contiene sei varianti di trattamento, tutte dattiloscritte: A) 56 pp., con correzioni manoscritte, Il cappotto. Dal racconto di Gogol – Treatment; B) 53 pp., con correzioni manoscritte, Dal racconto di Gogol “Il cappotto” – treatment; C) 3 pp., con note e correzioni manoscritte; D) 8 pp.; E) 15 pp., con note manoscritte, Il cappotto. Sequenziario per il treatment; F) 21 pp., con numerose note e correzioni manoscritte, Sequenziario per il treatment. Nella quarta cartella (16/4) è presente una variante di sceneggiatura completa dattiloscritta, suddivisa in: A) Primo tempo, 179 pp., con note manoscritte; B) Secondo tempo, 275 pp. Nella cartella 17/1 è disponibile una variante di sceneggiatura dattiloscritta, suddivisa in due tempi: C) 218 pp., Primo tempo. Cappotto Zavattini; D) 264 pp., II tempo Cappotto. La cartella 17/2 contiene invece tre stesure incomplete di sceneggiatura dattiloscritte: E) 37 pp., con note manoscritte; F) 31 pp., con numerose correzioni manoscritte; G) 126 pp., con note manoscritte, Il cappotto.
Tra le varianti di soggetto, quella classificabile cronologicamente come la più antica è il soggetto A, versione già edita con il titolo Il primissimo soggetto nel volume “Il cappotto” di Alberto Lattuada (Micciché 1995a, p. 229). Tale variante, che qui pubblichiamo, risale al 1951 (e non al 1952 come recita l’inizio del racconto) e riguarda l’iniziale e breve fase del progetto, quando la regia del film era stata affidata a Luigi Comencini. Si apre con una “premessa”: «Cominciamo il film con un excursus sui cappotti […]. Anche il nostro Carmine ha il cappotto […] ha una rispettabile età e lascia passare il freddo» (soggetto A, p. 1). Il soggetto vero e proprio inizia con il funerale di Carmine, vittima, appena prima di morire, del furto del proprio cappotto. Il passaggio del suo corteo funebre è sottolineato dalla voce off di uno speaker: «Il nostro Carmine a quest’ora è già arrivato in Paradiso e la sua storia, secondo voi, sarebbe finita. Ma non è vero […]. Eccolo qui che ritorna» (p. 1). La variante B risulta pressoché identica alla variante A con minime correzioni a penna e, in calce alla pagina dattiloscritta, l’aggiunta a penna di un punto interrogativo tra parentesi (soggetto B, p. 3), relativa a una probabile indecisione nella conclusione. La variante C si presenta come una prima parte di trattamento, introducendo nuovi personaggi e situazioni, come il Segretario Generale e il ricevimento a casa sua, e si conclude con Carmine intento a parlare al Sindaco. La variante D inizia invece con la dicitura «1° Tempo», cancellata a penna. Si può ragionevolmente supporre che si tratti della prima parte del trattamento del film, sebbene essa non riporti la vicenda raccontata dal soggetto C. Come la variante A, anche questa è pubblicata, ma con la titolazione «Il secondo soggetto» (Micciché 1995a, p. 241). Qui il nome del protagonista è diventato Carmine De Carmine, presentatoci come «un uomo modesto, poverissimo, dalle abitudini ormai cristallizzate da anni; la sua unica abilità e la sua passione consistono nel mettere in bella copia, con sfoggio di svolazzi ed ornamenti calligrafici gli atti del Comune» (soggetto D, p. 7). In tale variante, l’elemento del cappotto assume un ruolo narrativo e simbolico centrale e inizia a essere presente la convocazione assembleare in Municipio che vedremo nel film, con personaggi fino a quel momento inediti. Per quanto riguarda le scalette, la progressione è a favore dell’aumento di dettagli e numero di sequenze, mentre nei trattamenti e nelle sceneggiature altri passaggi acquisiscono una rilevanza drammaturgica, come ad esempio la scena del funerale di Carmine.
Pubblichiamo nel volume il soggetto A e il soggetto D. Online pubblichiamo la scaletta B e il trattamento A.
Dopo una trattativa con Luigi Comencini destinata a cadere per varie divergenze (Mirabile 1995, p. 23), per la regia de Il cappotto la Faro Film si rivolge ad Alberto Lattuada, che in quel periodo aveva abbandonato la collaborazione con la Lux (Cosulich 1985). Lattuada, reduce dal successo commerciale di Anna (Lattuada, 1951), accetta l’incarico. Il cappotto passa attraverso diverse fasi di elaborazione del soggetto, prima ambientato in una non meglio precisata «città del Nord», poi a Lucca, e infine − a causa soprattutto degli impegni teatrali di Rascel − a Pavia. L’inizio della lavorazione risale al 5 gennaio 1952, e le riprese si concludono nel marzo dello stesso anno; il montaggio e l’edizione vengono realizzati tra aprile e maggio, per giungere alla prima proiezione in pubblico il 3 ottobre 1952. Per la scrittura si pensa subito a Zavattini che, in una pagina dei Diari del 29 marzo 1951, scrive: «Curreli e Sinisgalli mi propongono regia del Cappotto di Gogol» (Zavattini 2022a, p. 417). Nella lunga corrispondenza con la Faro Film, da una lettera di fine maggio 1951 scritta dall’amministratore Enzo Curreli, apprendiamo il ruolo di primo piano assunto da Zavattini nella «riduzione cinematografica del racconto […]: grazie alla Sua competenza professionale siamo fiduciosi di potere basare la nostra produzione su fondamenti di sicura garanzia per il successo della nostra impresa nonché per il suo valore artistico».
Sebbene alla scrittura del film partecipi «tanta gente da mettere su la redazione al completo di una rivista di cultura cinematografica» (Maggiori 1952, p. 11), le testimonianze al riguardo risultano discordanti. Lattuada ricorda: «Per Il cappotto c’era Sinisgalli, perché era mecenate dell’iniziativa e amico dei produttori […]; poi volle comparire anche il produttore Curreli […]; poi l’amico di Curreli, Corsi, che ha detto: “E se lo facessimo con l’ombrello, nel caso cominciasse a piovere?”. […] Zavattini è stato inserito perché aveva partecipato a lunghe conversazioni sulla sceneggiatura, ma senza mai scrivere nulla» (Lattuada in Bernardini, Gili 1990, p. 214). Lo stesso Lattuada non manca di attribuirsi la paternità del soggetto e sceneggiatura insieme a Prosperi, Malerba e Sinisgalli (Lattuada 1995, p. 19). Consapevole di tale disconoscimento autoriale operato ai suoi danni, Zavattini si sfoga amaramente, il 7 gennaio 1952 (il suo ultimo giorno di lavoro alla coscrittura de Il cappotto): «In certi momenti l’ingiustizia di quelli che ti circondano e cercano di non darti ciò che in coscienza ti spetta, fa impaurire di acidità. Per esempio, Lattuada, che ho tirato io [fuori] dai guai lavorando per Il cappotto, non fa lo sforzo di riconoscerlo. Lo picchierei mentre lavoro con lui; trovo le soluzioni; lui le accetta, e non ti elogia mai, anzi commenta sempre come se le cose fossero nate da sole. Questa sera ho lavorato a trovare tutto il finale, l’ho trovato, erano inguaiati; sono state tre ore di duro lavoro e Lattuada non mi ha detto niente. Io ho detto nel congedarmi dal Cappotto: non ho mai lavorato tanto e con tanto poca soddisfazione» (Zavattini 2022a, p. 444). Sul contributo specifico di Zavattini, Micciché spiega che «sono probabilmente Prosperi e Malerba (assieme a Lattuada) gli estensori materiali delle diverse versioni di soggetti, scalette, sequenziari, trattamenti e copioni. Ma è evidente che, in questo contesto sceneggiatoriale […] la parola di Cesare Zavattini (già allora universalmente conosciuto) […] era poco meno del Verbo» (Micciché 1995b, pp. 33-34). È nel felice connubio di istanza neorealista e afflato favolistico che viene rintracciato l’indizio dell’impronta autoriale zavattiniana, sulla scia dell’intreccio di stilemi realistico/fantastici già collaudati da Zavattini e De Sica nell’appena precedente Miracolo a Milano (Argentieri 1995). Infine, anche il già citato Curreli, amministratore della Faro Film, ha più volte modo di confermare il ruolo centrale di Zavattini, ad esempio nella sua lettera inviata a quest’ultimo: «Ti prego di volere indicarci assieme alle Tue impressioni, quelle trovate relative soprattutto alla scena degli uffici vuoti di sera col sindaco ed il fantasma. Anzi vorrei proprio pregarTi di scriverla Tu, almeno questa sola scena che è per noi la più delicata, e da Te la più sentita». È ancora Curreli a riconoscere infine a Zavattini: «Senza la Tua esperienza, senza il Tuo valore di scrittore, senza le Tue idee il ns. lavoro sarebbe stato gravemente, irrimediabilmente manchevole».
La scrittura di Zavattini permette di trasporre con efficacia in pellicola la duplice natura della protesta sociale di Gogol’, intrisa di compassione patetica ma al contempo di sberleffo irriverente. Sin dal primissimo soggetto A, Zavattini intende per l’appunto restituirci la vicenda del protagonista nella sua duplice quanto inscindibile rappresentazione pietistica e comica, dando vita a una sintesi che potremmo definire umoristica (De Michelis, Marcialis 2020). Tra le principali modifiche rispetto all’opera di Gogol’, troviamo un’“italianizzazione” dell’ambientazione geografica in cui si svolge la vicenda, dapprima traslocata in un’imprecisata «città del Nord Italia» (soggetto D, p. 7), in un secondo momento circostanziata poi a Lucca (scaletta B, p. 3), per giungere infine alla scelta definitiva di Pavia, rivendicata, negli anni a venire, da Lattuada quale propria felice intuizione personale (Camerini 1982). Tale dislocamento spazio-temporale si traduce in originali variazioni strutturali e valoriali: «Tutto il contro-plot della corruzione cittadina è di Zavattini e di Lattuada, ed è originale, nel film, l’idea della nuova città, destinata agli speculatori e basata sul ritrovamento di un frammento archeologico» (Zagarrio 1995, p. 65). Anche Zavattini, riguardo ai personaggi, annota: «credo di aver spremuto dal personaggio tutta la sua spettacolarità in una linea chiara, italiana» (Zavattini 2022a, p. 426).
Una sostanziale differenza tra racconto originale e versione filmica si può riscontrare nella narrazione delle vicende post mortem del protagonista. La differenza più eclatante e di maggior rilevanza simbolica è forse costituita da una sequenza non presente in Gogol’ e aggiunta ex novo da Zavattini già nel soggetto A, ossia quella del corteo funebre del povero Carmine (Lattuada 1952, p. 259). Se il testo originale gogoliano si chiude − con la consueta ironia − su un dileguamento definitivo dello spettro di Akakij (il quale, dopo il fatidico e risolutore incontro col “pezzo grosso”, sembra infatti definitivamente acquietarsi, abbandonando così una volta per tutte il consorzio umano) (Gogol’ 1991, p. 142), varie versioni di soggetti e scalette presenti in ACZ − a partire dal soggetto A − effettuano una variazione nel finale, prevedendo l’incontro tra lo spettro di Carmine e il ladro del suo cappotto. Tale soluzione verrà però poi abbandonata: il film si chiude infatti con lo spettro di Carmine che, dopo l’incontro col sindaco, continua a vagare sconsolato nella notte, alla vana ricerca del cappotto rubato.
L’inedita attenzione che Zavattini − attraverso la sua (ri)scrittura de Il cappotto − riserva agli anfratti più umili e dimenticati della società, riflette, a ben vedere, quella più generale attenzione neorealistica all’essere umano, tanto più a conflitto mondiale appena finito, con la certezza «che l’uomo sia la pietra angolare di un discorso rivoluzionario sia sul piano morale che su quello estetico» (Guerra 2015, p. 99). Micciché considera infatti Il cappotto «il capolavoro del Lattuada “neorealistico”, e comunque l’opera in cui il regista sembra avere realizzato con maggiore efficacia espressiva, e più funzionale creatività, la fusione fra etica neorealistica e poetica personale», che a partire da Gogol’, grazie alla «rielaborazione realistico/fantastica» di Zavattini, crea un «neorealismo magico» (Micciché 1995b, p. 32).
Al successo del film contribuisce l’interpretazione di Renato Rascel, il quale − a dispetto della sua provenienza dal mondo della rivista leggera – offre un’intensa prova drammatica, che «oscilla magistralmente tra il patetico e il grottesco» (Mereghetti 2022, p. 1102). Molti anni dopo, Lattuada avrebbe confessato: «Ho voluto io Rascel perché aveva l’aria di un topolino furbo, per questo ho deciso di provarlo con un paio di baffetti […], il mio modello era un po’ Chaplin, ma soprattutto Buster Keaton» (Lattuada 1995, p. 19). Ma l’amore per Chaplin e Keaton è certo anche zavattiniano, come dimostra il corposo carteggio tra Zavattini e Rascel.
Al festival di Cannes del maggio 1952 Il cappotto ottiene una «caldissima accoglienza da parte di un pubblico vibrante al delicato umorismo elegiaco di questa nuova opera» (Gadda Conti 1952, n.n.). Il film e Rascel sfiorano entrambi la premiazione: «Due soldi di speranza [di Renato Castellani] ha ottenuto il Gran Premio [della Giuria] ex aequo con l’Otello di Orson Welles […] invece Rascel dovette cedere all’ultimo momento di fronte a Marlon Brando, attore di straordinaria forza in Viva Zapata!» (Aristarco 1952c, pp. 255-256). Dopo la delusione di Cannes, l’interpretazione di Rascel avrà il riconoscimento del Nastro d’argento quale miglior protagonista nella stagione 1952-1953. Tra i più argomentati giudizi positivi espressi dalla critica coeva sul film spicca quello di Arturo Lanocita, che vi ravvisa «il film più intelligente di Lattuada, il quale ha ritrovato ne Il cappotto la sua più spontanea ispirazione, strappandosi alle due tendenze che artificiosamente gli si erano incrostate addosso: il calligrafismo ed il realismo» (Lanocita 1952, n.n.).
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