L’operaio disoccupato Antonio, che vive nella periferia romana con moglie e figlio, trova impiego come attacchino municipale. Ma viene derubato della bicicletta, di cui ha bisogno per lavorare. Accompagnato dal figlioletto Bruno, intraprende quindi una ricerca senza successo vagando per Roma, andando da una Santona, ritrova anche il ladro ma tutto è inutile. Antonio tenta un maldestro furto di bicicletta, ma viene catturato dalla folla, poi rilasciato per pietà verso il figlio. I due si avviano verso casa in autobus.
Dati d’archivio. Collocazione in ACZ Za Sog R 32/1. Un’unica cartella contiene una variante di sceneggiatura dattiloscritta con note autografe: A) 295 pp., Ladri di biciclette, «soggetto cinematografico di Cesare Zavattini (tratto liberamente dall’omonimo racconto di Luigi Bartolini), sceneggiato da: Oreste Biancoli, Suso D’Amico, Vittorio De Sica, Adolfo Franci, Gerardo Guerrieri, Cesare Zavattini». Sono inoltre presenti una fotocopia del soggetto che chiameremo A), Ladri di biciclette, edito sulla «Rivista del cinema italiano» nel 1954 (Zavattini 1954c, pp. 21-23); e il soggetto che chiameremo C) pubblicato da Zavattini nel Diario cinematografico il 20 aprile 1948, riedito nel maggio 1948 dalla rivista «Bis» (Zavattini 1948).
Il soggetto A, pubblicato nel 1954, è verosimilmente la versione più antica, scritta da Zavattini tra il 1947 e il 1948 (Baldelli 1954b): si apre nella borgata romana di San Basilio e ha come protagonista l’attacchino Antonio, costretto a vivere una «vita da cani» (Zavattini 1954c, p. 22) con moglie e figlio. Il racconto si sofferma sulla miseria delle famiglie, al punto che «una commissione di giornalisti viene al principio del film a constatare le reali condizioni della borgata» (p. 22). Antonio subisce il furto della bicicletta nei pressi di piazza Venezia e, insieme al figlioletto di nome Ciro, si mette a cercarla nel mercato di piazza Vittorio, dove Ciro incontra un molestatore. Anche la ricerca al mercato di Porta Portese si rivela inutile, e Antonio, disperato, chiede soccorso a «una donna che è in contatto con Padre Pio da Petralcina» (p. 23), e più avanti anche a una prostituta che lo porta da un ricettatore. In via Panico il protagonista si imbatte nel ladro, seguendolo fino a un postribolo sulla cui soglia «Antonio viene cazzottato dal giovane» (p. 23). Senza più speranza di ritrovare la bicicletta, Antonio pensa al suicidio, poi decide che lavorerà a piedi. Ritorna a casa in autobus, «con Ciro che si è preso un altro scapaccione e che piange» (p. 23). Rispetto alle versioni successive, Robert Gordon ha giudicato tale prima variante «più triste e cupa» (Gordon 2008, p. 283), anche a causa del rapporto teso tra padre e figlio (Baldelli 1954a). Una stesura di soggetto intermedia scritta da Zavattini nel 1948, che chiameremo soggetto B, è conservata presso il Fondo Rissone-De Sica, con il titolo Soggetto di “Ladri di biciclette”, 22 pp. dattiloscritte, e si apre nel momento in cui sta per avvenire il furto della bicicletta, trasformando la relazione tra Antonio e il figlio, più uniti e solidali.
Nel soggetto C, più definitivo, scritto per il Diario cinematografico nell’aprile del 1948 (Zavattini 2002c, pp. 77-83) a sceneggiatura ultimata, l’incipit è esplicito: «Che cos’è una bicicletta? […] Per Antonio la bicicletta rappresenta uno strumento di lavoro che possiamo chiamare provvidenziale» (p. 15). È il soggetto che pubblichiamo. Il protagonista «ha circa quarant’anni» (p. 15) come l’attore Lamberto Maggiorani già scelto da De Sica per interpretare il protagonista del film, abita in periferia, a Val Melaina (non più a San Basilio) insieme alla moglie e al figlioletto, che qui si chiama Bruno, e «guadagna lo stretto necessario per non morir di fame» (p. 15). Per la disoccupazione e la miseria deve impegnare le lenzuola per riscattare la bicicletta necessaria al nuovo lavoro. Quando con il figlio Antonio si mette alla ricerca della bicicletta, non sono più soli come nel primo soggetto, ma li aiutano degli amici netturbini. Nella scena del furto della bicicletta tentato a sua volta da Antonio emerge la differenza più significativa rispetto al primo soggetto, per il forte legame tra Antonio e il piccolo Bruno, che «non è spettatore o estraneo alle disavventure del padre, egli patisce col padre» (Baldelli 1954a, pp. 26-27).
Come dicevamo, in ACZ è presente un’unica variante di sceneggiatura, ma una seconda variante – ipotizziamo di poco precedente – è custodita presso la Biblioteca Luigi Chiarini di Roma, e consta di 74 scene suddivise in ben 1156 inquadrature, con disposizione “all’italiana” su due colonne. La variante in ACZ (Za Sog R 32/1) risulta pressoché identica a quest’ultima, ma è arricchita da suggerimenti manoscritti su soluzioni alternative, ad esempio per la scena a Porta Portese, o quella a casa della Santona. A differenza dei soggetti esaminati, qui Antonio e Maria hanno anche un secondo figlio neonato. Nel soggetto definitivo Antonio subisce il furto mentre sta attaccando un manifesto sulla leva della classe 1927 –, ma in questa sceneggiatura (come poi nel film) si tratta di una locandina di un film con Rita Hayworth; ritorna inoltre la figura del pedofilo (più marginale), mentre compaiono personaggi ed episodi inediti che ritroveremo poi nel film, ad esempio il gruppo di seminaristi tedeschi a Porta Portese, o l’episodio del quasi affogamento di un ragazzino nelle acque del Tevere. Le ultime 24 inquadrature – dalla 1133 alla 1156 (sceneggiatura A, pp. 291-295) – appaiono cassate a matita, e indicano un ripensamento di Zavattini riguardo al finale, con padre e figlioletto che si avviano mestamente verso casa su un «tram stracarico» (p. 291), come nei soggetti (dove però i due salivano su un bus). Grazie ai tagli, la sceneggiatura termina invece con l’intenso finale che vedremo nel film: Bruno raccoglie e spolvera il cappello del padre, restituendoglielo, e si incammina con lui «per un tratto di strada in silenzio. Mentre la folla intorno commenta allegramente la partita di foot-ball» (p. 291). Alcuni critici apprezzano il taglio di quella prolissa «coda descrittiva» (Baldelli 1954a, p. 30).
La prima variante di soggetto, edita sulla «Rivista del cinema italiano», viene ripubblicata nel 1997 (Zavattini 1997a). La versione definitiva del soggetto, uscita nel Diario cinematografico il 20 aprile 1948 e riedita nel maggio 1948 dalla rivista «Bis», esce negli stessi anni in traduzione francese nella rivista «Ciné-club» (Zavattini 1950a); successivamente sul settimanale «Avvenimenti» (Zavattini 1990); in Zavattini 1997b (a cura di Caldiron e Manuel De Sica), e in Zavattini 2006 (pp. 97-101). La sceneggiatura viene pubblicata in traduzione francese da «L’Avant-Scène» nel dicembre del 1967 (Zavattini 1967) e nuovamente nel marzo del 1994 (Zavattini 1994). La casa editrice RADAR pubblica nel 1969 il racconto particolareggiato del film, a cura di Laura (1969).
Pubblichiamo il soggetto definitivo (soggetto C) e online il soggetto originario (soggetto A).
Il soggetto di Ladri di biciclette è tratto dall’omonimo romanzo del 1946 di Luigi Bartolini, pittore e scrittore. Zavattini e Bartolini si conoscono fin dal 1938, con stima reciproca. Bartolini chiederà aiuto a Zavattini per ristampare il proprio romanzo, dopo una prima edizione poco riuscita per Polìn dal sottotitolo «Romanzo umoristico», così il libro esce per Longanesi nel 1948. Il romanzo è «una sorta di reportage-diario-memoriale» (Bruni 2022, p. 38) in cui Bartolini rievoca il furto della propria bicicletta nella Roma appena liberata. Zavattini può quindi, nel dicembre 1946, leggere «con un diletto enorme» il libro Ladri di biciclette intuendone le potenzialità cinematografiche (Zavattini 2022a, p. 149). Ne parla con De Sica per acquistare i diritti del romanzo, e Bartolini, felice per l’opportunità, il 3 luglio 1947 li cede a Zavattini. Il 1° agosto si stila, per «L. 100.000», un contratto in cui Bartolini autorizza «una volta per sempre ad apportare nella riduzione ed adattamento cinematografico tutte quelle variazioni che il riduttore, il regista e gli sceneggiatori crederanno opportuno attuare», con l’unica condizione che il «titolo della riduzione cinematografica resti Ladri di biciclette […] ispirata dal libro omonimo di Luigi Bartolini». Eppure, di lì a poco Bartolini scatenerà una battaglia con lettere a Zavattini e articoli di giornale per rivendicare i propri diritti d’autore ed esecrare un film che tradisce «il senso picaresco, itifallico, satirico, morale» del romanzo, ad esempio con l’aggiunta del tentato furto compiuto dal protagonista (Bartolini 1950). La polemica, tra querele e minacce, affiora a più riprese dalle pagine dei Diari di Zavattini, sin dal giugno 1948 (Zavattini 2022a, p. 273), e sfocia in un ulteriore pagamento di 150.000 lire versate a Bartolini dalla Produzioni De Sica (PDS), costituitasi per finanziare il film (Zavattini 1950d). In una lettera del 29 giugno 1948 a Bartolini, Zavattini scrive: «Tu dici che il soggetto Ladri di biciclette è tuo e non mio. […] Come puoi sostenerlo? […] nel film non ci sarà una sola immagine del tuo libro e non c’è neppure nel soggetto. […] Se avessi intitolato il soggetto Hanno rubato una bicicletta nessuno avrebbe visto parentela di sorta col tuo libro» (Zavattini 2005b, pp. 167-170).
In effetti, il romanzo di Bartolini e il film di De Sica «appaiono a tal punto distanti da risultare quasi del tutto estranei» (Bruni 2022, p. 42); tuttavia alcuni elementi del romanzo sono ripresi e sviluppati nel soggetto di Zavattini, come la topografica romana e l’andamento itinerante del racconto: «Tutta la vita di Roma passa in questo film […] dai quartieri più miseri a quelli borghesi di Piazza Vittorio: i mercatini di Porta Portese, il Banco dei Pegni, le rive del Tevere, lo Stadio». Nel romanzo la narrazione è in prima persona, e il furto della bicicletta innesca una ricerca tra ladruncoli, prostitute, usurai e mercato nero, pretesto per una serie di severe digressioni sulla popolazione dei quartieri popolari. Il contesto di Porta Portese assume nel romanzo un ruolo più nevralgico di quanto sarà nel film, risultando l’itinerario prediletto del girovagare del protagonista (Bartolini 1948). Come nei soggetti e nel film, anche nel romanzo il ladro, soprannominato il «Pappa» (p. 90), viene difeso dagli abitanti del quartiere, che nel libro accusano il protagonista di essere fascista. Inoltre nel romanzo il protagonista, come nei soggetti e nella sceneggiatura, riceve dal Commissariato di Polizia un’accoglienza nient’affatto solidale. Nonostante le analogie, nel romanzo troviamo il lieto fine della riconsegna della bicicletta rubata (per nulla indispensabile al protagonista), mentre le scritture di Zavattini per il film esplorano il «senso morale e sociale» (Zavattini 1988, p. 134) di un «itinerario di formazione, […] siglato da un finale amaro senza che la bicicletta – mezzo imprescindibile di lavoro – venga recuperata, ma arricchito dall’intensa esperienza che nel frattempo Antonio e Bruno hanno compiuto» (Bruni 2022, p. 42). Nel romanzo sono poi assenti diversi dei protagonisti delineati nel soggetto e in sceneggiatura, come Maria, il piccolo Bruno, la Santona, e, a differenza che nel romanzo, nel film l’episodio del postribolo è di breve durata. L’operazione di adattamento è quindi leggibile come una «libertà intellettuale che ha anche giovato alla diffusione del libro» (Volpini 1988, p. XIX).
A inizio giugno 1947, Zavattini propone a De Sica di filmare il romanzo di Bartolini; De Sica crede nel soggetto (De Sica 1954), ma avanza alcune perplessità: nei mesi successivi Zavattini descrive gli «sforzi per convincere De Sica a fare Ladri di biciclette. Gliene ho fatta una seconda riduzione, sempre con l’idea dell’attacchino proprietario della bicicletta, con il figlio e la moglie. […] Ieri sera per un’ora a spiegargli lo spirito del film» (Zavattini 2022a, p. 209); «noi ci occupiamo del furto di una bicicletta a un operaio – perché è cosa grande, o meglio importante, come qualsiasi altro fatto antico o leggendario» (p. 215). Nel frattempo iniziano i sopralluoghi in giro per Roma, raccontati da Zavattini nel suo Diario cinematografico: dalla casa di tolleranza di via Panico (nel settembre 1947) al magazzino degli attacchini a Val Melaina (nell’ottobre 1947); dalla messa dei poveri (nel dicembre 1947), fino all’incontro con la «Santona» in una stradina di fronte a Villa Torlonia (nel febbraio 1948). Questo episodio viene raccontato come il più divertente fra i sopralluoghi effettuati per il film (Cecchi D’Amico 2003), con un’ilarità generale nel gruppo di sceneggiatori della quale Zavattini si scuserà successivamente per lettera.
La stesura della sceneggiatura di Ladri di biciclette è un lavoro collegiale tipico di quegli anni (Villa 2002), ma i titoli di testa sono fin troppo affollati: Zavattini, Suso Cecchi D’Amico, De Sica, Oreste Biancoli, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi e Gerardo Guerrieri. Sebbene risulti impossibile quantificare le rispettive quote di responsabilità (Gordon 2009), sappiamo però che Gherardi «morì prima di incominciare il lavoro» (Cecchi D’Amico 2001), mentre Adolfo Franci «era un vecchio amico per il quale [De Sica] doveva trovare una scusa per fargli avere qualche soldo» (Cecchi D’Amico in Faldini, Fofi 1979, p. 134). La sceneggiatura si deve principalmente a Zavattini, come conferma Maria Mercader (attrice e seconda moglie di De Sica): dopo aver notato che Ladri di biciclette «ha molti padri putativi», precisa infatti che «l’unico che lavorò al testo e alla realizzazione, dal primo all’ultimo giro di manovella, fu Zavattini» (Mercader 1978, pp. 99-100). De Sica, invece, mostra un «doppio comportamento: in privato tutto riconoscenza ed elogi [verso Zavattini], nelle dichiarazioni pubbliche tendente piuttosto a una maggiore valutazione del proprio ruolo» (Gambetti 2009, p. 136). Zavattini dovrà ribadire più volte a De Sica la propria paternità del lavoro di scrittura: «Ladri di biciclette è un film nostro […]. Ma il testo è tutto mio nello spirito e nei suoi precisi valori sociali e morali di cui ebbi sempre la più profonda coscienza, e che illustrai per giorni e giorni a te e agli altri, sin da quando avevo scritto la prima stesura del soggetto. […] i miei guai sono generati soprattutto dai titoli di testa. Bartolini offusca i miei diritti sul soggetto e poi una sonagliera di nomi nella sceneggiatura fa praticamente scomparire il mio» (Zavattini 2005b, pp. 173-175); «Tu sai che il 90% delle immagini di Ladri di biciclette sono state pensate da me […]. Che cosa ne ho avuto in cambio? Che ieri ai giornalisti milanesi non hai detto quello che dovevi dire».
Nelle prime fasi di sceneggiatura abbandona il gruppo Sergio Amidei, per accese divergenze con Zavattini soprattutto riguardo al finale del film (Saladini 1948; Leone in Faldini, Fofi 1979). Racconta Cecchi D’Amico: «Secondo Zavattini finiva che questo aveva cercato tutto il giorno la bicicletta, tornava a casa e non l’aveva trovata. Ecco perché Sergio Amidei si ritirò, e io entrai al suo posto» (Cecchi D’Amico in D’Agostini 2004, p. 42); a lei sarebbe da attribuire l’intuizione del finale definitivo del soggetto, con il tentativo di furto da parte dello stesso Antonio (Cecchi D’Amico 2003). Tuttavia, l’apporto di Cecchi D’Amico è stato più volte ridimensionato da Zavattini, e anche lo spunto della sequenza finale viene fatto risalire – molti anni dopo – a un breve testo di Zavattini degli anni trenta, confluito nella raccolta Al macero. Qui troviamo in effetti il motivo del padre e del figlioletto lungo le strade cittadine, e il dettaglio del cappello (del padre) ruzzolato per terra (Zavattini 1976). Nella prima settimana dell’aprile 1948 Zavattini apporta le ultime modifiche alla sceneggiatura: «Stamattina ho buttato in aria tutto l’inizio sostituendolo con l’inizio a Val Melaina e la scena dell’ufficio disoccupati. De Sica è incerto. Tutte le variazioni (immissione scena fiume con incidente, dopo lo schiaffo a Bruno) e scena trattoria, le ho messe suo malgrado» (Zavattini 2022a, p. 254). La sceneggiatura può dirsi conclusa il 20 aprile; il giorno prima De Sica aveva convocato gli aspiranti protagonisti per il provino. Ma l’attività di Zavattini non si arresta, proseguendo in fase di montaggio per l’intera estate 1948: «Vedo altri pezzi di Ladri di biciclette, alcuni buoni, altri no […]. Il bambino funziona» (Zavattini 2022a, p. 272); «ho partecipato appassionatamente [al montaggio], fotogramma per fotogramma, dal principio alla fine, settimane e settimane a fianco di De Sica […] e del noto e bravo montatore Eraldo Da Roma» (Zavattini 1974, n.n.). Si giunge così alla prima del film, il 21 novembre 1948, e Zavattini riepiloga nel suo diario il proprio apporto: «Ho costruito questo film dallo zero, dal soggetto […]. Ho lavorato indefessamente al montaggio per togliere tutte quelle esagerazioni sentimentali che De Sica ci aveva messo […]. De Sica mi ha seguito in tutto, ciecamente, compreso il finale, che ho voluto io contro tutti e contro lo stesso De Sica che volevano un finale confortante».
Il film Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948) ricalca piuttosto fedelmente la variante di sceneggiatura A di ACZ , anche nei personaggi: da Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani) al piccolo Bruno (Enzo Staiola), dall’amico Baiocco (lo spazzino) alla Santona. Nel film, tuttavia, Antonio e Maria hanno anche una neonata, brevemente inquadrata appena sveglia, mentre Antonio esce con Bruno per il suo primo giorno di lavoro. Nella sequenza del film di Antonio e Bruno dalla Santona, troviamo inoltre la scena comica – non presente in sceneggiatura – del giovane non ricambiato in amore a causa della sua bruttezza. Nel film entrano anche le sequenze ambientate alla sede del partito e alla messa dei poveri, oltre che la sequenza finale, con il taglio già previsto nella sceneggiatura A, e un particolare aggiunto successivamente: quando Antonio, dopo il disperato tentativo di furto, viene raggiunto da Bruno (che gli restituisce il cappello caduto), e s’incammina con lui tra la folla, il bambino lo prende amorevolmente per mano.
Ladri di biciclette suscita subito accoglienze contrastanti e schierate ideologicamente, risentendo del clima da “battaglia elettorale” di quel 1948. Gran parte della critica riserva al film un’accoglienza aspramente negativa: il fronte cattolico lo condanna per il suo «pessimismo eccessivo» (CCC 1948, n.n.), per la mancanza di un «qualsiasi conforto nella fede» (Regnoli 1948, n.n.) e per la natura troppo materiale del protagonista. In difesa intervengono esponenti di spicco del PCI, come Antonello Trombadori (1949), e organi di stampa comunisti: ad esempio «La Lotta» denuncia come «in Italia, […] paese marshallizzato, […] il soggetto [del film] è troppo “sovversivo” perché fosse gradito ai padroni di Città del Vaticano ed ai suoi servi governativi».
Aristarco elegge il film a centro ideale del neorealismo cinematografico italiano, perché improntato a «una maggiore coerenza poetica e a una partecipazione umana più uniforme» rispetto ai film di Rossellini e Visconti, che presentano derive «iperstilistiche» (Aristarco 1949, p. 221). Anche nei decenni successivi, Fofi vede nel film il «centro attorno al quale orbitano le opere degli altri neorealisti» (Fofi in Faldini, Fofi 2011, p. 20), e Caldiron sottolinea «il debito che la modernità di Ladri di biciclette ha contratto con la rifondazione cinematografica di Zavattini» (Caldiron 1997, p. 33), mentre Alonge giudica Ladri di biciclette la «quintessenza del neorealismo» (Alonge 1997, p. 11), ma anche «un film che preannuncia una svolta» (p. 13). Un aspetto che non sfugge alla critica (anche a quella coeva) è la riconoscibilità della «calligrafia» e della «mano trepidante e ansiosa di Zavattini, chino amorosamente su piccoli fatti estremamente importanti» (Mondadori 1949, n.n.), e la congenialità della regia di De Sica (Visconti 1948, p. 48).
La consacrazione di Ladri di biciclette viene dalla critica francese: il padre domenicano Raymond Pichard, su posizioni opposte rispetto al versante cattolico italiano (Lepratto 2020), riconosce al film il merito di porre i cristiani – «dal signor De Gasperi fino all’ultimo agente di Roma, dal vescovo al sacrestano» (Pichard 1950, p. 3) – davanti alle proprie mancanze e alle proprie responsabilità. Bazin ravvisa nel film «uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente, nell’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema» (Bazin 1949); una rivoluzione che rappresenta un «punto zero del neorealismo» (Bazin 1953, p. 15).
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