Un viaggio etnografico alla scoperta del Messico per aprirsi a tanti racconti di vita quotidiana legati in particolare al tema del lavoro, ma anche alle ritualità e alle feste religiose.
Dati d’archivio. Collocazione: Za Sogg. NR 20/3 contiene un soggetto dattiloscritto con correzioni manoscritte: A) Mexico, 10 pp., che, come riportiamo nelle note critiche, è in realtà Braceros, non Mexico mio. Una scaletta dattiloscritta in lingua spagnola: B) Mexico mio, por Cesare Zavattini, 6 pp. Un trattamento dattiloscritto C) Mexico mio (Primer tratamiento) por: Cesare Zavattini, Diciembre 1955, 41 pp.; dattiloscritto; Una sceneggiatura dattiloscritta: D) Mexico mio. Distribucion de asuntos principales en la continuidad, 167 pp. Note di lavorazione dattiloscritte: E) Mexico mio, 13 pp.; F) Mexico mio, Roma 22 settembre 1956, 14 pp.; G) Nota relativa a una prima stesura per la necessità del deposito presso la Società Autori di Mexico mio, 4 pp.; H) Prime reazioni leggendo le 31 pagine della sceneggiatura di Mexico mio, 17 pp. Za Sogg. NR 20/4 contiene una nota di lavorazione dattiloscritta: I) Material del Mexico mio para el Sr. Cesare Zavattini: Encuestas, 167 pp., documentazione raccolta per la realizzazione del film e una raccolta di fotografie positivi fotografici in bianco e nero: L), con momenti di vita dopo un’alluvione in Messico e la visita a un’azienda, probabilmente fatte a Vera Cruz.
All’interno dei faldoni di Mexico mio si trovano soggetto, scaletta, sceneggiatura e trattamento, ma come vedremo non sono coerenti tra loro, anzi c’è un problema di catalogazione rispetto al cosiddetto soggetto. Sono presenti anche molte “note di lavorazione”, con 29 fotografie in bianco e neri ritraenti il Messico negli anni Cinquanta e le conseguenze catastrofiche di una alluvione, oppure di una visita in un’azienda che produce bibite. Il soggetto A, intitolato Messico, è stato erroneamente catalogato come il primo soggetto di Mexico mio, mentre è un soggetto più tardo dedicato ai lavoratori stagionali messicani spesso clandestini in USA, detti Braceros, un nome che diventa il titolo del soggetto, dato da Brancaleone (2019: 302) seguendo appunti e lettere di Zavattini; il soggetto è unico, composto di 10 cartelle con note manoscritte, alcune a biro e altre a matita, scritto in italiano ma con alcune parole di origine spagnola sottolineate. Brancaleone (2019b: 329) spiega come ha composto nel suo libro quello che definisce “il testo che più corrisponde al soggetto”: “México mío risulta qui composto dai seguenti testi, tutti inediti: 1. Zavattini, “Nota relativa a una prima stesura per la necessità del deposito presso la Società Autori di Mexico mio, dicembre 1955, ACZ Sog. NR 20/3, c. 252-c. 255; 2. Zavattini, “Mexico mio, Roma, 22 settembre 1956, ACZ Sog. NR 20/3, c. 238-250; 3. Zavattini, “Prime reazioni leggendo le 31 pagine della sceneggiatura di Mexico mio”, ACZ Sog. NR 20/3, c. 256-264; c. 256; 4. Zavattini, “Mexico mio, Nota di cose consigliabili”, ACZ Sog. NR 20/3, c. 269-271. Il loro insieme ci restituisce il testo che più corrisponde al soggetto”. Rispetto a questa proposta di accorpamento, frutto di una interpretazione critica ponderata e tuttavia per alcuni versi piuttosto spuria, preferiamo pubblicare nel volume solo i primi due scritti di Zavattini individuati da Brancaleone come parte del ‘soggetto’ di Mexico mio, cioè la Nota relativa a una prima stesura per la necessità del deposito presso la Società Autori di Mexico mio del dicembre 1955, e la nota dal titolo Mexico mio del settembre 1956
Il primo trattamento di Mexico mio che si trova nel fascicolo dell’Archivio Zavattini risale a dicembre 1955 ed è una traduzione in spagnolo, con alcune dislocazioni e parti sintetizzate, della Nota relativa a una prima stesura per la necessità del deposito presso la Società Autori di Mexico mio, del 1955, conservata assieme alle Note di lavorazione; vi si aggiunge un breve elenco di scene descritte sinteticamente relative ai luoghi da filmare. Il trattamento contiene quindi le indicazioni che arrivano alla casa produttrice da Zavattini, ma si indica in quali misura i suoi suggerimenti possono essere messi in opera e quali no. Un elenco di punti spiega i momenti che si vogliono rappresentare. Sicuramente l’amore, le donne, donne incinte e donne madri, si vuole parlare anche dei contadini, di chi lavora la terra o fa il fruttivendolo, senza tralasciare altri mestieri come operai e minatori, soldati e pescatori. Si vuole raccontare il fine settimana, la domenica sia per i credenti che per gli atei, il gioco della lotteria e la preparazione all’inizio della nuova settimana. Canti e balli popolari non vengono tralasciati. Nel primo trattamento non ci sono note manoscritte. La seconda parte del trattamento è tutta dedicata al progetto Italia mia, traducendo in spagnolo nel 1956 (a cura di A.J. Garnica e C. Velo) l’introduzione, le lettere e il soggetto che Zavattini aveva pubblicato nel corposo numero di Rassegna del film (n. 12, 1953), di cui diamo conto nella scheda relativa a Italia mia in questo volume. Il faldone contiene anche una sceneggiatura in spagnolo di 153 pagine scritta da Carlos Velo, il quale cura anche una bellissima scaletta divisa per scene e ordinata per temi come: “raccontini, familia, trabajos, comercio, escenarios, naturaleza, religión-arqueologia, deportes-espectaculos, fiestas y danzas, musica y canciones”, datata agosto 1958; la scaletta inizia da “sabado noche” e termina a “domingo mañana”, e anche se si discosta molto dal Trattamento (come vedremo nella nota critica) rimane documentaria e legata a diverse regioni e città del Messico, in una sorta di viaggio tra città e campagna, diversi incontri, mestieri e situazioni (a scuola, al mercato, ecc.), con dialoghi frammentari ma specifici con gente del luogo.
Nelle note di lavorazione, come dicevamo, troviamo anche delle “considerazioni di Zavattini” datate 22 settembre 1956, che sono parte del soggetto ricostruito da Brancaleone e che qui pubblichiamo: vi si legge in controluce la polemica con Velo, sia rispetto all’uso del folklore, sia rispetto alla decisione di Zavattini di insistere sull’idea del racconto tenuto dalle 24 ore di un giorno nel Messico: “Messico mio come Italia mia ha già nel titolo un movimento di amore; e questo amore direi che si deve vedere, questa coscienza di quello che è il Messico. Cioè noi partiamo per un film che si distacca totalmente dalla pura illustrazione degli altri films di viaggi e di paesi fatti in questi ultimi anni, come si distacca dalla pura avventurosità o dal puro folklore colto nei suoi aspetti eccezionalissimi. La nostra ambizione dovrebbe essere quella, come per me sarebbe se facessi Italia mia, di avere un punto di vista molto diretto, molto chiaro, molto semplice […] far vedere come l’uomo messicano, quello del popolo, cioè quello più numeroso che dà carattere al paese, vive” (considerazioni su Mexico mio, 1956: 238-239). Si delinea anche la struttura del film, che avrà un prologo generale con uno speaker e poi lascerà posto alle immagini prese pedinando persone comuni che passano, ad esempio una donna al mercato che poi va in chiesa (tra galline vive, che deve vendere, e conversazioni molto naturali con Cristo in croce, uno spunto trascritto anche nel Diario cinematografico). Interessante anche il contenuto del faldone archiviato come 20/4, contenente una Appendice e una lunga raccolta di interviste, materiali documentari inviati a Zavattini e da lui utilizzati per la realizzazione del soggetto (ma che entreranno soprattutto nella sceneggiatura). Le pagine sono più di 150: è una inchiesta sul “México actual”, un’indagine condotta per conoscere quotidianità, usi e costumi, del mondo messicano attuale; alcune di queste cartelle sono la descrizione di una chiacchierata, sotto forma di intervista, ad esempio a uno scrittore o un’attrice su tradizioni folkloriche, religione; le interviste sono curate da Helena Poniatowska, Raquel Tibol, Carlos Velo, Andres Henestrosa e Gaston Garcia Cantu.
Il soggetto A, cioè quello che chiamiamo con Brancaleone (2019) Braceros, è stato pubblicato in Caldiron (2006: 357-363), integrando anche le correzioni manoscritte, con il titolo Mexico mio.
Pubblichiamo per Mexico mio nel volume: nota di lavorazione G del 1955; nota di lavorazione F del 1956 (già trascritte in Brancaleone 2019); mentre online il Trattamento A in spagnolo; la nota di lavorazione H; la nota G del 1955 e la nota F del 1956 (così indicate in presso l’Archivio Cesare Zavattini, qui le chiamiamo B, C, D come nel frontespizio originale); nonché la Scaletta in spagnolo.
Zavattini conosce il Messico nel 1953, anno in cui lo visita per la prima volta per una tappa del suo viaggio internazionale per “diffondere il Nuovo Cinema Italiano” (Brancaleone 2019: 31). Nel 1955 ritorna in Messico, in un anno molto importante per il paese: “nel 1955 hanno votato per la prima volta le donne”; Zavattini viene chiamato “dal produttore Manuel Barbachano Ponce, tramite il noto esperto d’arte precolombiana Fernando Gamboa” (Caldiron 2006: 361) e assieme a lui decide di offrire come modello e struttura “un soggetto che si muove su presupposti contenutistici e stilistici simili, Italia mia” (Mazzoni 1979: 310). In tal modo México mio diventa “un viaggio dentro il paese latino-americano che rimanda al modello di Italia mia” (Caldiron 2006: XXX).
Nei primi tempi, la discordanza maggiore tra la produzione messicana e Zavattini è legata all’unità temporale del film: Zavattini voleva infatti che l’intero film si compiesse in un solo giorno mentre il regista Carlos Velo sperava di vedere la trama divisa in almeno due giorni (si veda Zavattini Nicoletta: 1995-1996). Passano però le settimane e Zavattini si accorge come Velo “non conosca altra prospettiva che quella panoramica e, soprattutto, cosa gravissima, come abbia scartato l’idea base del soggetto […] aggrava questi problemi di regia scadente l’interruzione vera e propria dei rapporti fra soggettista e regista o meglio fra produttore e scrittore. Il 1° gennaio 1957 Zavattini si lamenta che da cinque mesi non riceve notizie, senza che nessuna spiegazione venga data per lo stallo” (Brancaleone 2019: 277-278). A luglio di quell’anno però Zavattini decide di fare ritorno in Messico per cercare di concretizzare gli spunti finora raccolti e realizzare il film. Insiste con la casa di produzione e spiega comunque che adattare l’idea di Italia mia ad un altro stato è un’opera difficile per lui: potrebbe farlo se la nazione da raccontare fosse la sua, perché la conosce, ma il Messico deve prima essere vissuto, e i pochi giorni di visita a Zavattini non sono sufficienti per compiere questa impresa, e quindi “arrivare ad una sintesi di base del soggetto elaborato assieme a Carlos Velo è compito di Velo” (Brancaleone 2019: 282). Dopo diversi incontri e riunioni, “finalmente, sembra possibile realizzare assieme a questi collaboratori e col finanziamento necessario, non tanto una versione messicana di Italia mia, quanto lo sviluppo organico di quel progetto, sottoponendo le idee di massima ad un confronto concreto con la realtà messicana” (ib.).
Zavattini ragiona a più riprese anche sul titolo, chiedendosi se sia corretto tradurre anche il pronome di Italia mia: il “mia” era riferito a Zavattini stesso che raccontava la sua nazione, mentre in questo caso, per un paese a lui straniero, a chi si sarebbe riferito? Per Zavattini dovrebbe essere interpretato come un “nostro”: un Messico raccontato dal suo pubblico, i messicani. La sua proposta è allora di lanciare un concorso nazionale che coinvolga “la gente del popolo”, chiedendo alle singole persone di raccontare che cos’è per loro il Messico (id.: 283). Ma è un suggerimento che crea tensione tra Zavattini e il regista Velo in sintonia con il produttore Barbachano, per i quali l’annuncio di Zavattini appare come un’idea pericolosa, perché “in realtà, rifiutano il film neo-realista, impegnato e politico che propone il cineasta italiano. La casa di produzione messicana non ha nessuna intenzione di allargare la visuale, di mettere in rapporto l’indipendenza culturale messicana col colonialismo nord-americano” (id.: 283). Queste discussioni sono documentate nelle carte d’archivio, in particolare nell’epistolario e nel Taccuino di Zavattini (compreso negli Appunti e materiale vario raccolto durante il soggiorno messicano, 1955-1957, catalogati come ACZ E 6/2), che vengono studiati da Brancaleone per sostenere che si accentua via via una inconciliabile differenza, una “combinazione di problemi ideologici e strutturali”, che si polarizzano tra il “film celebrativo, patriottico e spettacolare, che riafferma il mito e le mitologie del Messico” con una visione stereotipata ed “esotica” quale appare nella sceneggiatura scritta da Velo, e la “visione critica ed etnografica, su base documentaria”, proposta invece da Zavattini fin dal primo soggetto improntato sul progetto di Italia mia, dove egli promuove invece un “film concreto, in cui il controcampo del paesaggio spettacolare è la popolazione fatta di individui con tanto di nome e cognome e situazioni reali” (Brancaleone 2019: 298-299). Interessante a questo proposito appare il lungo resoconto del 13 dicembre 1956 pubblicato nel Diario Cinematografico (2002: 316-334), con appunti che Zavattini raccoglie sul Messico, sulle vicende che vive in prima persona, uno sguardo indagatore personale ma che cerca di essere oggettivo su quello che lo circonda. Ad esempio, della festa per la Vergine di Guadalupe nella piazza di Città del Messico, che dura tutta la notte, Zavattini descrive la folla, la chiesa gremita, i penitenti, la piazza, come “uno sconfinato luogo di danza”, dove l’immagine della Madonna si mescola con feticci e altri idoli: “correvo da un gruppo all’altro senza sapere dove fermarmi per l’avidità di vedere” (id.: 331). Questa attenzione nei confronti del quotidiano e del rituale, assieme alla voglia di raccontare la complessità attraverso mille situazioni minime, è alla base del soggetto e del trattamento di Mexico mio che proponiamo in questo volume e nel portale online. Il soggetto (ricostruito a partire dalle note di lavorazione) si presenta come “analitico e Neo-realista, [perché] individua il messicano non come figura ideale, ma concreta, individuale, una figura composita, formata da tanti ritratti colti in situazioni concrete, in momenti precisi, nel tempo presente” (Brancaleone 2019: 276). I materiali preparatori di Italia mia vengono utilizzati come allegati alla corrispondenza italo-messicana necessaria alla preparazione del film Mexico mio, e integrati nel Trattamento in spagnolo. In questi documenti si enfatizza cosa per Zavattini è importante inserire nel film, ma è proprio ciò che alla produzione messicana non piace: viene infatti fatta notare la mancanza di una trama, vincolo che invece il regista messicano ritiene necessario per la realizzazione del film. Un’altra critica mossa a Zavattini è il voler rappresentare sul grande schermo un Messico troppo realista: mentre per Zavattini non sembra concepibile sorvolare sull’attuale situazione politica, tra gli appunti messicani viene invece sottolineato, e in caratteri maiuscoli, che il film non vuole essere politico, che la prospettiva sarà “ottimista”, per enfatizzare una sensazione positiva nei confronti della vita da parte dei messicani.
Rispetto al soggetto Braceros, ricordiamo che “bracero” significa, secondo i dizionari, un lavoratore stagionale messicano in USA. Spiega Brancaleone: “a questo soggetto privo di nome abbiamo dato il titolo Braceros, in base ai tanti riferimenti di Zavattini a questo argomento nei carteggi, nel Diario cinematografico e nelle altre carte d’archivio conservate alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. È stato pubblicato da Orio Caldiron col titolo Mexico mio (Caldiron 2006: 357-363), ma non vi corrisponde in nessun modo. Questo soggetto tratta dei braceros, i lavoratori stagionali messicani che si recavano negli USA per lavoro, per dei mesi, un anno, diversi anni, o per sempre. L’argomento costituisce uno dei tanti ideati da Zavattini durante il suo lungo viaggio in compagnia di Fernando Gamboa nel 1955 [non nel 1957 come riportato nelle note d’archivio], nella fase di ricerca etnografica per México mío. Assomiglia al soggetto seguente, che abbiamo chiamato Breve storia d’amore, dello stesso periodo, che prende di petto un altro fenomeno tipicamente messicano, il machismo. I due soggetti hanno in comune un realismo popolare e critico poco gradito ai messicani, che infatti li scartarono. Intorno al 1958, il produttore Barbachano chiese a Zavattini di scrivere dei nuovi soggetti, come dimostra la lettera di Zavattini del 16 marzo 1958. Bisogna pensare che cercasse un’alternativa a México mío, che troppo si allontanava dalla sua visione folclorica, celebrativa e spettacolare del Messico, visione agli antipodi di quella del cineasta italiano, che proponeva un cinema realista che fosse etnografico, critico e apertamente dialettico. Eppure, per tutto il 1958, il carteggio fra i messicani e Zavattini non dà segni di un rifiuto netto di México mío, ma di uno scontro di vedute senza tregua fra regista, Carlos Velo, e sceneggiatore, fra produttore, Barbachano, e sceneggiatore sul tipo di Messico che si voleva rappresentare; scontro che portò all’impasse dell’anno seguente” (Brancaleone 2019b: 321).
Rispetto al breve soggetto che pubblichiamo dal titolo Breve storia d’amore (1958), ricordiamo, seguendo Brancaleone (2019: 302), che il soggetto nasce da un fatto che Laura, la moglie del regista Alazraki, aveva raccontato a Zavattini durante i loro sopralluoghi in giro per il Messico (Alazraki aveva diretto il documentario neorealista Raíces del 1954 e doveva, inizialmente, dirigere anche Mexico mio). Brancaleone chiosa: “questo soggetto compare in una lettera indirizzata al produttore, Manuel Barbachano Ponce del 16 marzo 1958. Zavattini la descrive come «la breve storia d’amore di cui lei avrebbe bisogno», un’indicazione che oramai i rapporti lavorativi fra i due sono cambiati, anzi deteriorati, tenendo conto degli accordi stretti fra i due qualche anno prima. Oltretutto, il soggetto, precisa lo stesso scrittore di cinema, potrebbe al massimo “un episodio di sette-ottocento metri, novecento, ovvero un medio-metraggio di circa trenta minuti” (Brancaleone 2019b: 326). La lettera di Zavattini a Barbachano inizia così: “Caro Barbachano, le scrivo in fretta perché parto fra poche ore per Budapest, ma chiaramente, spero. Ho pensato alla breve storia d’amore di cui lei avrebbe bisogno e mi sembra che quella cui ho accennato sia buona e oggi gliela racconto di nuovo con un finale che la mette ancora più a fuoco. Questa breve storia puntualizza una situazione psicologica messicana molto tipica ma tale da essere capita in ogni paese. Essa ha dei contenuti ‘esemplari’, se non sbaglio, che la rendono umana su un piano largo. Non badi alla forma, perché devo dettare tutto fulmineamente”; dopo aver raccontato il soggetto dei due giovani sposi messicani, Zavattini conclude: “Non è facile, dare tutti questi elementi in novecento metri. Ma è possibile. Prima bisogna riuscire a dare l’amore, la innocenza, direi, propria dell’età di questi due giovani del popolo, il profondo amore anche se si esprime rusticamente” (Lettera del 16 marzo 1958, in Zavattini 1988: 417-420).