Una voce misteriosa echeggia nel cielo di Napoli e annuncia il Giudizio Universale. Una folla di personaggi diversi si muove e si agita nel timore della prossima fine. Dopo l’inizio del grande processo, una pioggia fittissima comincia a cadere sulla città, facendo pensare che si tratti del diluvio universale. Ma è un semplice temporale, passato il quale ognuno torna alle solite abitudini, dimentico dei buoni propositi espressi nel momento del pericolo.
In ACZ, catalogate come Za Sog R 29/2-30/2, sono presenti due cartelle contenenti le sottocartelle con il materiale relativo al film Il Giudizio Universale del 1961. La cartella 29 contiene: la scaletta A) di 5 pp., intitolata Alle 18 comincia il giudizio universale; la scaletta/trattamento B) Il giudizio universale ovvero Il grande ballo di 16 pp.; la scaletta/trattamento C) di 74 pp. dal titolo Alle 18 comincia il giudizio universale, datata a mano al 30.12.1957; la scaletta/trattamento D) di 74 pp. intitolata Alle 18 comincia il giudizio universale; Copia a tutto il 15.1.1958. La cartella 30 contiene invece una sceneggiatura intestata: «Giudizio universale, soggetto e sceneggiatura di Cesare Zavattini, Produzione Dino de Laurentiis Cinematografica spa», con la nota «Consegnata a De Sica e De Laurentiis il 14.2.61».
La scaletta A si presenta come una serie di brevi indicazioni e descrizioni numerate (da 1 a 54) dei personaggi, delineandone le caratteristiche principali da vari punti di vista (fisico, carattere, attitudini ecc.). Le annotazioni manoscritte di Zavattini a lato di alcuni ci informano degli attori previsti, con buona parte del cinema italiano (in realtà molti di quelli annotati saranno sostituiti): Peppino De Filippo (n. 1, «Il signore provinciale sui cinquant’anni», p. 1), Aldo Fabrizi e Totò (n. 7, i «due poveri disoccupati» p. 1, che nel film saranno Franco Franchi e Ciccio Ingrassia), Paolo Stoppa (n. 11, «il marito dell’adultera», p. 2), Silvana Pampanini (n. 12, «l’adultera bella, fatua», p. 2), Renato Rascel (n. 13, il cameriere d’albergo, che sarà invece interpretato da Nino Manfredi), Alberto Sordi (n. 18, «il signore vanitoso», p. 2), Marco Tulli (n. 19, «il tipetto […] malandato, umiliato, ma ancora con un residuo di umanità», p. 2), Gina Lollobrigida (n. 30, «la moglie del grande costruttore», p. 3), Memmo Carotenuto (n. 37, «il borsaiolo», p. 3), Anna Magnani (n. 44, «la madre del bambino [che lancia il] pomodoro», p. 4, che nel film diventerà Marisa Merlini), ma anche “Beurville”, presumibilmente Bourvil (n. 45; tipico uomo di media borghesia francese, ruolo che poi sarà affidato a Fernandel), Marcel Marceau (n. 47, «il sordomuto», p. 4), Vittorio De Sica (n. 53, nel ruolo del «signore lussuoso in vestaglia che entra nei gabinetti», p. 5; nel film interpreterà invece l’avvocato); oltre che non attori come Carlo Ludovico Bragaglia (n. 23, «l’imputato nel tribunale») e «Savinio», presumibilmente lo scrittore Alberto Savinio (n. 24, «l’avvocato difensore»). La scaletta B, più simile a un trattamento, presenta moltissime note e correzioni a mano (con inchiostro verde), e intere pp. manoscritte. Le cosiddette scalette C e D, di oltre 70 pp., sono dei veri e propri trattamenti. La D integra le correzioni manoscritte presenti nella C ed è mancante della p. 9. Entrambe sono suddivise in paragrafi secondo l’ordine 1-9 (quindi 1bis-9bis, 1ter-9ter, 1quater-9quater, 1quinquies-9quinquies) per evidenziare anche nella scrittura il racconto multilineare con più storie parallele che si sviluppano quasi contemporaneamente.
La sceneggiatura è divisa in 119 scene. Franchi e Ingrassia sono gli unici a essere esplicitati con i loro nomi. Un piccolo ruolo del conduttore televisivo che appare sugli schermi, che nel film sarà un cameo di Mike Bongiorno, è indicato come «telepresentatore». Il cameo di Domenico Modugno è descritto come «L’uomo della fisarmonica», che canta la canzone In coppa o capo Posillepo adiroso (nel film invece Modugno esegue ’na musica). Per quanto riguarda le parti musicali, nella sceneggiatura è già presente la canzone umoristica antirazzista cantata dal personaggio dell’americano Adali Arrison («ninna nanna, ninna nanna / non sei nero, ma sei bianco / tutto bianco come panna. / Tu sei bianco più di me. / Io son nero più di te»). Quello che nel film è «Il Gran Ballo del Duca», sia nelle scalette che nella sceneggiatura è indicato invece come «Il Gran Ballo pro disoccupati» (pp. 273-279).
Pubblichiamo nel volume il soggetto già pubblicato nel 1961 a cura di Alberto Bevilacqua (De Sica, Zavattini 1961); pubblichiamo online le scalette A e B.
Zavattini scrive nei suoi Diari il 25 luglio 1948: «Mi nasce l’idea [del] film dal soggetto sul Giudizio Universale» (Zavattini 2022a, p. 279). Impariamo inoltre che nell’ideazione de Il Giudizio Universale confluiscono almeno venti soggetti non realizzati di Zavattini, ad esempio Lo schiaffo, con un cameriere (nel film interpretato da Nino Manfredi) che vorrebbe vendicarsi di esser stato trattato male da un cliente; oppure il soggetto intitolato Il cappotto 1951, in cui un uomo esce di casa con il cappotto nuovo, da una finestra gli tirano addosso un pomodoro: fuori di sé, si mette in testa di scoprire il colpevole. Lunghe ricerche nel grande casamento da cui proviene il proiettile. Alla fine scopre che il pomodoro gliel’ha tirato un bambino, ma neppure il bimbo sa spiegargliene il motivo.
Zavattini ne parla a Vittorio De Sica in una lettera del 17 gennaio 1955: «tu stesso hai detto su “Vie nuove” qualche cosa su Il Giudizio Universale il che mi fa sperare che mi aiuterai a realizzare il mio programma, cioè quello di ritirarmi a Luzzara quest’autunno [per] 4 o 5 mesi di lavoro filato […]. Il Giudizio Universale nasce da quell’idea che ti ho scritto in poche righe l’anno scorso […] si apparenta in qualche modo a Miracolo a Milano, per i suoi toni umoristici, satirici, ma con una qualità scoperta, più diretta» (D 499/263). Scrive ancora a De Sica il 10 novembre 1957: «sto cercando di dipanare la matassa […le] difficoltà sono di costruzione, direi quasi nel senso tecnico più che immaginativo. Mi pare che il titolo debba essere: Alle 18 comincia il Giudizio Universale. Meno solenne di quell’altro, dà subito i limiti, il carattere non michelangiolesco» (D 499/276). Nel corso degli scambi epistolari con il regista, Zavattini segnala come suo solito le idee che sta elaborando, come nella seguente lettera del 28 gennaio 1958: «ecco il trattamento nel quale mancano ancora due o tre piccole cose, come il bambino che domanda cos’è il giudizio universale; come il giornalista che domanda se deve mettere in prima pagina la notizia del giudizio universale; come la gag dell’orologio. La cosiddetta gag collettiva, quella in cui tutti devono credere rivolta a se stessi la domanda della gran voce (in quanto il nome pronunciato dalla gran voce viene coperto dai tuoni), sto ancora covandola» (D 499/279). In una lettera a De Sica del 12 giugno 1959, Zavattini comunica ulteriori impegni comuni: «il sogno sarebbe che tu riuscissi a fare subito Alle 18 incomincia il Giudizio Universale, che è di genere satirico, per attaccare immediatamente dopo Il Cornuto e la Guerra che è di genere realistico […] due aspetti complementari del mondo che ci accomuna» (D 499/290). Il 10 dicembre 1959 Zavattini scrive a De Sica che ha rivisto ancora delle scene, allega una pagina di sceneggiatura su una bambina e il fratellino che corrono sotto la pioggia (scena che entrerà nel film), ed è contento della scelta di Napoli come location, anzi indica il cimitero e la stazione come «due luoghi classici per conoscere degli aspetti base della città» (D 499/292).
In una nuova lettera a De Sica del 6 marzo 1960, Zavattini spiega di essere contento di fare la riduzione de La ciociara, ma non del rinvio del Giudizio Universale, per l’ostinazione di De Sica di avere nel cast Gina Lollobrigida e Silvana Pampanini, mentre il film «potrebbe essere prospettato con altri interpreti più economici, più inediti […]. Se fosse uscito oggi, credo in coscienza che […] avrebbe giuocato un suo ruolo importante nella dialettica del discorso cinematografico italiano, […tu] tranquillamente prospetti la sua realizzazione per il 1962, significa che ti sei staccato da questo progetto. C’è intorno a noi una bellissima lotta di linguaggi, di contenuti, ogni mese nasce qualche cosa che allarga l’orizzonte o almeno ravviva il nostro mestiere, il nostro ambiente, e tu rimandi di due anni e più la realizzazione di un copione? […] altri due anni di attesa vuol dire mummificarlo»; Zavattini chiede a De Sica di cedere ad altri il progetto, e propone Fellini (che ha una nuova società con Rizzoli, la Federiz, nata nel 1961), spiegando che il film «può essere fatto con 150 milioni o al massimo con 200 milioni. Si tratta di strutturare tutta la produzione, tutta la regia con quella libertà, quella spregiudicatezza che del resto il testo consente» (D 499/293). Zavattini torna ancora sulla scelta di Napoli in una lettera del 15 settembre 1960: «essa arriva sul copione come un raggio di sole e ci fa sentire subito un bel brusio di gente vera, vivente, e conosciuta e amata da noi, […] nessuno di noi vuole fare un film denigratorio di Napoli. Penso che sarà invece un’esaltazione del suo estro, della sua fantasia, del suo cuore, e se ci sono dei poveri o dei cornuti o dei borsaioli, questi ci sono anche in Di Giacomo, in De Filippo, in Marotta […]. Oserei dire che, accanto alla dimensione di Carosello napoletano, dell’Oro di Napoli, si pone questa nuova dimensione satirica e fantastica, ma sempre realistica; […] così il soprannaturale resta limitato a Napoli, sua sede elettiva, dove ciò può accadere ogni giorno e passare» (D 499/295).
Un volume del 1961 a cura di Alberto Bevilacqua include il soggetto che qui pubblichiamo (dal titolo ancora incerto Il Giudizio Universale ovvero Il Grande Ballo), brevi testimonianze di De Sica e Alfredo De Laurentiis, una sezione chiamata Foglietti di diario – scritti col Lapis con aneddoti sui problemi di produzione nel 1961, e la sceneggiatura firmata da Zavattini, appena successiva a quella conservata in ACZ, perché vengono riportate (seppure con variazioni) le correzioni scritte a matita da Zavattini sull’ultima scena, aggiungendo una battuta finale di «Quello dal gran naso» rivolta verso il cielo (oramai ammutolito): «Ma io vorrei sapere cosa ci rimetteva a farmelo appena un po’ più piccolo» (De Sica, Zavattini 1961, p. 174). Riportiamo alcuni stralci della Premessa di Bevilacqua, che scrive: «L’idea originaria de Il Giudizio Universale si è venuta articolando, nella mente di Cesare Zavattini, attraverso stadi successivi […]. Già intorno al ’40, Zavattini sottoponeva [al] regista Pratelli un trattamento in cui si raccontava, per episodi concatenati e in una chiave assolutamente drammatica, la storia […] di una catastrofe universale causata dalla caduta di una stella che piombava a bruciare la Terra. Otto anni dopo, agli inizi del ’48, Zavattini inseriva – in un progetto di film che avrebbe dovuto realizzare Blasetti e che fu abbandonato – l’episodio di un angelo che appariva improvvisamente alla ribalta, annunciando, con uno squillo di tromba, che stava per aver luogo il diluvio universale. Per agire con più immediatezza sull’animo degli spettatori, lo scrittore di Luzzara aveva pensato di far azionare in sala, al momento preciso dell’apparizione dell’angelo sullo schermo, speciali congegni meccanici in grado di provocare un forte vento. Due anni dopo, un terzo approfondimento dell’idea. Dalla Spagna appuntando un’idea su di una cartolina postale, Zavattini suggerisce a Blasetti di cominciare un film, con l’improvviso, catartico suono di una “gran voce”» (Bevilacqua 1961, p. 5). Bevilacqua riporta l’incipit di una versione del soggetto non contenuta in ACZ: «Una bella mattina, uguale a tante altre, in un punto del mondo uguale a tanti altri, si ode improvvisamente una voce che dice: − Comincia il Giudizio Universale. − Passano parecchi minuti prima che tutti, o quasi tutti, si rendano conto che quella voce viene dall’alto, molto dall’alto, dal cielo, da dietro grosse nubi bianche e nere che lo riempiono… Noi dobbiamo ringraziare la sorte di questo ritardo di comprensione, poiché ci permette di vedere con calma la vita dei cittadini prima del grande annuncio, poi quando cominciano a sospettare la verità, e infine quando la verità è, ahimé, chiara e fatale» (p. 6). Bevilacqua ricorda anche una prima idea di ambientare il film a Bergamo, con Zavattini che scriveva: «Se è Bergamo, bisogna sottolineare che è uno scherzo di “quelli di sopra”, della Bergamo alta. Quelli della Bergamo alta, pensano che siano quelli di San Vigilio e quelli di San Vigilio pensano che sia il cielo» (p. 8). Viene messa in rilievo la qualità «veramente modello» della versione definitiva della sceneggiatura di Zavattini, acquistata «a scatola chiusa» dal produttore Dino De Laurentiis, ma si raccontano anche le varie vicissitudini del progetto che rischiava di arenarsi, salvato dal successo del film La ciociara (del 1960), che rilancia il binomio De Sica-Zavattini. Resta tuttavia il rifiuto dei produttori di utilizzare solo attori presi dalla strada (come nella proposta originaria), fino alla decisione (per far fronte agli alti costi di produzione) di usare al contrario molti «attori di grido» (p. 9), italiani e internazionali.
Dopo l’uscita del film, Callisto Cosulich ne ricorda l’origine: «Fra [i molti] soggetti rimasti per anni in cottura, uno dei più vetusti è quello che ha dato origine a Il Giudizio Universale, che Vittorio De Sica sta realizzando in questi giorni a Napoli. […] Si può dire che esso vive sul sacrificio, volontario o fortuito, di una serie di progetti, man mano accantonati o trasformati dall’autore, Cesare Zavattini, […]. In principio non era nemmeno un soggetto, bensì una battuta; non era il giudizio, ma il diluvio universale […]. Doveva essere l’apertura di un film-rivista, Basta una canzone, che Zavattini stava congegnando per Blasetti e che a un certo punto aveva coinvolto anche Flaiano e Maccari […] un film fuori da ogni tradizione caratterizzato dalla particolare temperie dell’anno in cui era stato concepito: il 1945, la fine della guerra. […] un mezzo originale per […] provocare una confessione generale, un esame approfondito dei molti torti di cui ciascuno era responsabile. Ma la sostanziale ipocrisia dell’umanità non veniva sopraffatta nemmeno dalla paura del cataclisma e l’attimo di sincerità si trasformava presto in un’affannosa ricerca di alibi. […] Come si configura Il Giudizio nella sua ultima versione? Dieci storie diverse s’intersecano con matematica precisione e rigida disciplina, senza mai tentare di sopravanzarsi a vicenda, né di allargare le proprie dimensioni a danno delle altre: riprese tre volte prima del giudizio, una volta durante e una volta dopo, per confluire tutte alla fine, in un ambiente unico, quello del “Gran Ballo Pro- Disoccupati”, quasi alla maniera dei vecchi film di René Clair» (Cosulich 1961, n.n.).
Rispetto allo scarso successo del film, Zavattini scrive a Lorenzo Pellizzari il 30 novembre 1961: «La botta del Giudizio Universale è stata molto forte. Su un piano umano, mi ha addolorato vedere che, tutte le volte che un film dove c’entro io va male, il mio nome giganteggia, e quando va bene non mi citano neanche. Su un piano critico è grave che io non abbia capito che avevo imitato un po’ troppo lo Zavattini di tanti anni fa, e che, ideologicamente, mi ero mosso con pigrizia. Il che non toglie agli altri la loro parte di responsabilità; quel grossolano e presuntuoso lancio del film, a cominciare dal titolo non mio, quel cast spropositato che obnubila la semplicità della favola, la sua umiltà: perché si tratta di una favoletta, di un balletto, con un’ombra di sapore ottocentesco, e conservato nei suoi limiti, con gente della strada, fatto con poco danaro (due anni fa scrissi una lettera dove mi battevo per mantenere il costo sui cento o centocinquanta milioni) […]. La mia amarezza però va oltre questo ultimo episodio e investe tutta la mia vita cinematografica […]. Dicono: predica il neo-realismo e poi fa il Giudizio Universale» (Zavattini 2006, pp. 290-292). Molto meno severo è invece il parere di De Santi: «L’argomento invocato a molteplici riprese che il relativo fallimento di Il giudizio universale fosse da ascrivere al peccato originale di una sceneggiatura datata e anacronistica, ferma ai giochi letterari tentati e elaborati da Zavattini prima dell’approccio alla gran fenice del neorealismo, è non soltanto infondato e banale, ma palesemente grossolano. Fraintende di fatto non solo il lavoro di sceneggiatore di Zavattini, la sua idea del cinema e la sua concezione del realismo, ma anche la sua stessa letteratura»; anche la sperimentazione adottata nell’ordine dei paragrafi secondo la successione 1-9, nel trattamento e nella sceneggiatura, assume un valore innovativo, dato che si cerca di ottenere già nella scrittura un «principio di simultaneità (e ovviamente anche il graduarsi della temporalità in successione) […] una possibile ulteriore strada da aprire al cinema» (De Santi 2003, p. 118).
MM