I sette fratelli Cervi lavorano come contadini in un nuovo fondo attorno al quale costruiscono una grande famiglia. Con l’inizio della seconda guerra mondiale, cominciano attivamente a sabotare le attività dei fascisti insieme ad altri contadini, lavoratori e un gruppo di teatranti ambulanti. Casa Cervi diventa un rifugio di antifascisti e tutta la famiglia si unisce alla resistenza. Nel 1943 i fascisti arrestano i sette fratelli che verranno fucilati insieme.
Dati d’archivio. Za Sog R 52/3-6 e Za Sog R 53/1-3 contengono un soggetto, due scalette, un trattamento, tre sceneggiature e varie note di lavorazione per il film I sette fratelli Cervi (Puccini, 1968). Nella prima cartella (Za Sog R 52/3) è presente un soggetto di 13 pp. dattiloscritte con poche correzioni manoscritte intitolato I fratelli Cervi (p. 1). La copia è in cattive condizioni, ma c’è una versione fotocopiata meno rovinata. Nella seconda cartella (Za Sog R 52/4) troviamo due scalette: A) 9 pp. dattiloscritte (con caratteri molto piccoli), intitolata Scaletta per i Cervi con note e appunti manoscritti; B) 6 pp. dattiloscritte (con una diversa macchina da scrivere) dal titolo I sette fratelli Cervi (scalettina), con note e integrazioni manoscritte, e un appunto datato 15.11.1965. La terza cartella (Za Sog R 52/5) contiene un trattamento di 103 pp. dattiloscritte con camicia intitolata I fratelli Cervi / regia Gianni Puccini / prima stesura per un racconto cinematografico, vi sono punti di domanda e appunti autografi di Zavattini in pennarello rosso sul retro dell’ultima pagina. Nelle tre cartelle successive (Za Sog R 52/6 e Za Sog R 53/1-2) sono disponibili tre sceneggiature (una per cartella), rispettivamente: A) 292 pp. dattiloscritte con note e correzioni manoscritte all’interno di una camicia con nota manoscritta «Per il Sig. Moretti S.G.M.»; B) 262 pp. dattiloscritte con poche note manoscritte (punti interrogativi) riguardo a dubbi sulla stesura; C) 311 pp. dattiloscritte con note e correzioni manoscritte, rilegata. Nell’ultima cartella (Za Sog R 53/3) sono invece disponibili delle note di lavorazione di 3 pp. dattiloscritte con poche correzioni a macchina che fanno riferimento a degli «appunti sui Cervi» (p. 1).
I crediti del film riportano il nome di Zavattini solo come sceneggiatore, per quanto egli precisi più volte il suo ruolo di semplice consulenza, spesso inascoltata dal regista. La scaletta è attribuibile a Renato Nicolai insieme a Zavattini come testimoniano alcune lettere (N 88/7), ma Nicolai con l’arrivo di Puccini e Baratti si allontana dal progetto. Supponiamo quindi che il soggetto sia di Zavattini, come sostiene anche Michele Guerra (2016), forse con l’aiuto di Nicolai, e partendo dal soggetto e dalla scaletta è ipotizzabile che Puccini e Baratti abbiano poi steso trattamento e sceneggiatura (con la supervisione del solo Zavattini). Il soggetto conservato in ACZ esordisce con delle premesse storiche: una dichiarazione d’intenti rispetto ai fratelli Cervi come simbolo dell’antifascismo («vissero e morirono per la libertà e per il progresso civile dell’umanità», p. 1) e cosa rappresentano con il loro sacrificio, ossia la resistenza come «condizione naturale di ogni uomo». Ci si sofferma sulla fattoria di Campegine come «punto di incontro della resistenza» che difese «lo spirito della fratellanza tra i popoli» (p. 2), partendo da testimonianze e documenti: «attraverso le notizie delle Radio clandestine, attraverso l’interpretazione che daranno i vari ex-prigionieri diventati partigiani» (p. 2). La narrazione invece procede cronologicamente partendo dal lavoro nei campi, la formazione della grande famiglia, l’incontro con la compagnia teatrale dei Sarzi (antifascisti militanti) ecc., con episodi ripresi dalla biografia/intervista curata da Renato Nicolai (Cervi 1955).
Anche nella scaletta A vengono sottolineate delle premesse cruciali per capire la storia dei Cervi, a partire da due «sentimenti base […] fondamentali» per i fratelli: «l’autonomia e l’orgoglio» (p. 1). I Cervi così diventano giovani della loro epoca, non disposti ad aspettare o a seguire tattiche di rivoluzione, perché hanno «fretta» di reagire a ogni ingiustizia. «Questa scaletta ha il valore di individuare la linea di ciò che si vuol dire […] infatti la difficoltà finora incontrata […] non è consistita tanto nel raccontare i fatti, che sono fin troppi e addirittura provocatori per la loro suggestività, ma nel collegarli a una linea che interpretasse a fondo lo spirito della storia e ne ricavasse il più avanzato messaggio di attualità» (p. 2). Nella scaletta si cercano anche i punti di incontro tra la vicenda dei Cervi e la guerra nel Vietnam di quegli anni, e la lunga gestazione permette un taglio attuale, ma anche universale, di riflessione sul rapporto tra uomo e società. Segue un lungo elenco di sequenze, in ordine cronologico come il soggetto, che si aggiungono alle 39 della scaletta B. Un altro elenco puntato è quello che appare negli appunti di lavorazione che corrispondono ad aneddoti – che possono diventare altrettante scene – sulla vita vera dei fratelli Cervi.
Il trattamento A, realizzato da Puccini e Baratti, si propone come «prima stesura» (p. 2). Inizia dai bombardamenti della notte dell’8 gennaio 1944 a Reggio Emilia con un ordigno che colpisce un cimitero e da sette bare fuoriescono i corpi dei fratelli Cervi. Parte così un flashback sulla loro storia, con i fratelli che assistono a uno spettacolo teatrale. Come nel film, e a differenza del soggetto e delle scalette, la narrazione segue un ordine non cronologico e ciò che succede prima di questo evento iniziale viene visualizzato come flashback, terminando con la fucilazione e «le parole dell’epigrafe sulla tomba della madre» (p. 102). Alcune soluzioni vengono riprese dalla scaletta A, come il livellamento del terreno raccontato con una serie molto veloce di scene flash. Nel retro dell’ultima pagina Zavattini riporta con appunti manoscritti alcune indicazioni, che riprendono i pochi punti di domanda disseminati nel trattamento: propone ad esempio di rispondere fin dall’inizio alla domanda «il fascismo cos’è?», ridurre i salti temporali (e raccontare più lentamente l’episodio del livellamento), aggiungere contestualizzazioni sul paesaggio e gli usi emiliani (introducendo ad esempio le biciclette), o togliere dei flashback in cui Aldo ricorda gli insegnamenti avuti in prigione.
La sceneggiatura A esordisce con i bombardamenti, come il trattamento, e come questo e il film ha una struttura non cronologica. Invece le sceneggiature B e C sembrano più vicine al soggetto che al film. La B apre con il giovane Aldo Cervi in prigione sotto le armi (una sequenza assente nel soggetto, ma presente a metà film), a cui segue il suo ritorno a casa, il lavoro nei campi con padre e fratelli e gli attriti col padrone, che troviamo anche all’inizio del soggetto. Questa variante è una stesura cronologica che si conclude con l’esecuzione dei fratelli Cervi e con un’immagine di casa Cervi sulla musica di «bell’uccellin del bosco, viva la libertà» (p. 262). La sceneggiatura C, invece, che appare più ufficiale in quanto rilegata e più ordinata, è una stesura più dettagliata della B: esordisce con le motivazioni della carcerazione di Aldo Cervi e si conclude allo stesso modo. Troviamo più sequenze presenti nel film e assenti nel soggetto, ma disposte come in quest’ultimo in un ordine cronologico. Invece la sceneggiatura A – indirizzata al produttore Roberto Moretti, come dichiarato sulla camicia originale –, che presenta molte cancellazioni e riscritture a mano, esordisce con lo spettacolo teatrale della compagnia Sarzi, prosegue con una serie di flashback e si conclude con la fucilazione dei fratelli al poligono di tiro. Alla scarica di mitra segue il «silenzio assoluto» e alcune righe cancellate a mano. Non si aggiunge nulla al finale, proprio come accadrà nel film, al contrario del soggetto e delle altre sceneggiature (B e C). Ipotizziamo quindi che le varianti B e C della sceneggiatura siano due stesure precedenti, in successione tra loro, mentre la variante A sia successiva (o parallela) e più legata al trattamento e al film che si farà, pescando nelle altre due per spunti e passaggi.
Pubblichiamo nel volume l’unico soggetto. Pubblichiamo online le scalette A e B con vari appunti sul progetto.
La fascinazione di Zavattini per la storia dei sette fratelli Cervi nasce nel 1954, quando, undici anni dopo la loro fucilazione a Reggio Emilia, si reca a Gattatico dal padre, Alcide Cervi. Da questo incontro nell’aprile del 1954 nasce Il film sui sette fratelli, un articolo dei più intensi (Guerra 2016), pubblicato su «Cinema Nuovo», in cui racconta la sua visita a Casa Cervi (Zavattini 1954b, p. 167; ora in versione abbreviata in Zavattini 2002c, pp. 201-204). Zavattini è «travolto dal formarsi del mito dei sette fratelli e dalle figure del padre Alcide, delle vedove e degli orfani. La storia dei sette contadini rappresenta un’occasione unica per un film davvero popolare, ispirato all’umanismo neorealista e alla narrazione contesa che negli anni Cinquanta andava costruendosi attorno alla Resistenza» (Guerra 2016, p. 53). Tuttavia queste prime idee non diventano film per tutto il decennio, in una complicatissima storia fatta di un enorme numero di personalità coinvolte, censure e ostacoli.
Molti registi sono tentati dalla trasposizione: Aldo Vergano, Pietro Germi – che rinuncia in quanto «non comunista» (Germi in Brunetta 2015b, p. 53) –, e un esordiente Elio Petri, che realizza un cortometraggio documentario intitolato I sette contadini (Petri, 1958), scritto
da Zavattini, Nicolai e Luigi Chiarini. In un continuo dialogo tra Ponti e De Laurentiis come produttori e la redazione di «Cinema Nuovo», dopo la rinuncia di Zampa si indicano come possibili registi Lizzani, Vancini, De Santis, Visconti. Nel 1964 il progetto passa a Nanni Loy con la supervisione di Ponti e del deputato comunista di Reggio Emilia Otello Montanari. In questa occasione Zavattini e Nicolai lavorano ad alcune scalette, con degli attriti riportati nella corrispondenza tra il gennaio 1964 e il luglio 1965 conservata in ACZ (N 88/10-13): Nicolai parla di due versioni di scaletta che condivide con Zavattini e dell’avvio della stesura di una sceneggiatura; Zavattini rivendica di aver ragionato sul progetto ben prima della biografia/ intervista bestseller curata da Nicolai e narrata in prima persona da Alcide Cervi, I miei sette figli (Cervi 1955), e conferma di aver lavorato assieme a un soggetto (prima della proposta
di Nicolai a Lizzani): «tu sai che razza di scontentezza avevo contro il nostro testo, e te lo provai fra l’altro nelle sgobbate notturne all’Astoria (per cui dichiarasti, bontà tua, che avevi imparato qualcosa)».
Quando il progetto finisce nelle mani di Puccini, però, Nicolai lascia per divergenze sul taglio narrativo e tematico, affermando (in una lettera ad Agostini che invia anche a Zavattini): «porto via con me anche il libro, e quindi non sono disposto ad accettare riferimenti a episodi, frasi, espressioni che siano nella sceneggiatura e possano, per un verso o per l’altro, collegarsi a riconoscibili passi del libro»; e continua: «so che ci sarà la supervisione di Zavattini, che certamente ha il suo valore, ma mi sembra che nemmeno a Zavattini siano state date adeguate possibilità per lavorare di più dal di dentro». Da parte sua Zavattini, sperando di portare a conclusione quello che, nelle lettere a Bompiani, chiama un «vecchio impegno» (Zavattini 2005b, p. 932), decide di collaborare supervisionando la sceneggiatura scritta da Puccini e Baratti. Zavattini spiega così a Nicolai la sua scelta: «per l’età, per il nome, per il
mio carattere, non ho certo la vocazione dei ruoli subalterni, ma pur di non mettere bastoni tra le ruote di questa impresa che a tutti è sembrata presentarsi come possibile forse per l’ultima volta, ho cercato e sto cercando di essere utile». A film terminato, Nicolai risponde con una lunga lettera del 5 agosto 1967 (N 88/8), in cui ripercorre le fasi del progetto e accusa Puccini e Moretti (il nuovo produttore) di non avergli mai fatto leggere la sceneggiatura. Zavattini interviene allora come mediatore e ribadisce la sua posizione, ricordando che «tutti abbiamo sacrificato qualcosa e io per questa partita non credo di essere secondo a nessuno»; nonostante le divergenze artistiche con Puccini, Zavattini (che vorrebbe un film meno ellittico) scrive: «questa mattina sono venuto a vedere il film con un solo desiderio: che tu fossi riuscito a vincere la tua battaglia. E malgrado le osservazioni che ti ho fatto […] devo dire
che un tuo modo registico d’interpretazione dei fatti c’è e, quali possano essere le critiche, bisogna riconoscere la profonda serietà, la profonda passione con la quale hai affrontato la dura impresa»; continua però esponendo dei dubbi sullo stile asciutto che, pur con un suo fascino, non gli sembra funzionale nei confronti di quello che chiama lo «spettatore medio»; inoltre «mi sarebbe piaciuto vedere un po’ più di biciclette, un po’ più di nebbia, un po’ più di Emilia». In effetti, la lunga gestazione del progetto, dalla prima idea al film realizzato, ha reso I sette fratelli Cervi attribuibile più al suo regista che ad altri. Zavattini, rispondendo
ai ringraziamenti di Puccini dopo la buona riuscita del film, ricorda che durante la scrittura «in certi momenti dentro di me protestavo profondamente sia perché avevo coscienza che si poteva fare meglio, sia perché avevo coscienza di poterti dare un contributo più utile se tu me lo avessi permesso, sia perché il mio amor proprio era piuttosto spesso preso a calci nel sedere. Ma sono contento […] di non avere mai, assolutamente mai messo i miei umori, il mio interesse personale, davanti a quello che credevo fossero le ragioni del film». Tuttavia, nel film di Puccini si respira il desiderio zavattiniano di liberare i fratelli Cervi dal «cumulo di miti» e di «preconcetti» che si erano depositati su di loro, e si ritrova l’idea di Zavattini di non fare un inutile «film di “massacro”, un film della “barbarie”», bensì di far percepire «la vera aria umana che si respirava in quell’epoca» (Zavattini 2002c, p. 772).
La stampa, prima dell’uscita in sala, celebra la produzione del film anticipando l’aspetto emozionale con titoli come La fucilazione dei sette fratelli Cervi sarà portata sullo schermo da Gianni Puccini (Livi 1967), La famiglia Cervi vista nella sua intimità (Scagnetti 1968) o La tragedia dei sette fratelli Cervi rivivrà col pathos della bassa padana (Fornaciari 1967). All’uscita la critica accoglie il film positivamente, riconoscendo sia la scelta di «una linea tradizionale e globale» e la capacità di riassumere «senza retorica e senza enfiazioni drammatiche la complessa parabola di un decennio» (Casiraghi 1968, n.n.), sia la capacità di Puccini di «tener fuori il film da un’atmosfera di lapidi» (Kezich 1968, n.n.). Le diverse posizioni assunte attorno al progetto Cervi, come ricorda Guerra, «sono indicative di un periodo complicato del nostro cinema e della nostra storia politica, nonché di una battaglia delle idee che incide con forza sulla fattibilità di opere “sponsorizzate” anche da personaggi di caratura e reputazione internazionale come Cesare Zavattini» (Guerra 2016, p. 62). Inoltre, I sette fratelli Cervi segna una svolta importante di due percorsi artistici: Puccini inizia una nuova fase della sua filmografia, raggiungendo «il pudore affettivo, la dignità artistica e la sobria saldezza che formano la spina dorsale di un autorevole e fecondo artigiano» (Argentieri 2002, pp. 136-137); mentre Volonté comincia in quegli anni a dedicarsi a film di impegno ideologico e civile (Eugeni 2002, p. 185).
Come accennato nella Nota filologica e genetica, le differenze tra il film e il primo soggetto sono numerose: ad esempio la struttura cronologica, che sostiene il soggetto, nel film di Puccini viene stravolta, forse per evitare problemi con le vicende narrate nella biografia curata da Nicolai (Cervi 1955). Le prime sequenze propongono infatti l’incontro con la compagnia teatrale antiregime dei Sarzi, e in un dialogo con Lucia, come a presentarsi, Aldo Cervi ripercorre la sua vita. Qui troviamo una prima parte con numerose scene presenti anche nel soggetto (come il confronto sulle modalità di gestione del terreno, la formazione della famiglia, la guerra), ma predisposte come flashback e totalmente in bianco e nero. Alcune variazioni del film rispetto al soggetto di partenza risultano la presenza di Verina, compagna di Aldo; le sequenze del carcere dove Aldo finisce durante il servizio militare, imparando dagli antifascisti le idee socialiste; la sequenza del 25 luglio in cui si perde il rituale della pastasciutta (antifascista), mentre rimane la scena dei soldati che sparano agli operai in sciopero. Resta anche la parte della resistenza partigiana, l’incontro con don Pasquino e la casa dei Cervi usata come rifugio. Il film finisce con i corpi a terra dopo la fucilazione e una dedica alla città di Reggio Emilia, perdendo il finale previsto dal soggetto che apriva alla speranza con il ritorno a casa del padre Alcide, la scoperta della tragedia e un’osservazione sulla «neve soffice […] e sotto appaiono le piccole foglie verdi del grano» (p. 11).
AS