Pasquale e Giuseppe, due giovanissimi lustrascarpe, per ottenere i soldi necessari ad acquistare un cavallo accettano di distrarre una chiromante per farla rapinare, ma il giorno dopo vengono arrestati. Condannati a un anno di Istituto Correzionale, i due fanno conoscenza con altri detenuti e sono vessati dal capo delle guardie. Si sta organizzando una rivolta per evadere durante lo spettacolo cinematografico, che però fallisce. Pasquale e Giuseppe si integrano con gli altri, ma rovinano man mano la loro amicizia. Quando escono vanno a recuperare il cavallo, ma in un litigio Pasquale uccide Giuseppe.
Dati d’archivio. Collocazione Za Sog R 49/2 contiene un soggetto dattiloscritto e una fotocopia di un soggetto dattiloscritto: A) 20 pp. (originale, senza correzioni); B) 10 pp. (fotocopia, con correzioni a penna manoscritte). Seppur denominati Suggerimenti per un soggetto sugli Sciuscià, si tratta di veri e propri soggetti. Il soggetto A è la riscrittura dattiloscritta del soggetto B integrata delle correzioni autografe di Zavattini. Nella trascrizione del soggetto A saltano però alcune parti, ad esempio nel soggetto B si parla dei ragazzi detenuti, uno dei quali «fa degli esperimenti di ipnotismo, con effetti esilarantissimi» (p. 28): questa frase si perde nel soggetto A, ma viene riportata invece correttamente da Caldiron (in Zavattini 2006, p. 93), così come un’altra frase, nel momento della rivolta, in cui si specifica il motivo della defezione di alcuni bambini: ipnotizzati dalle scene «che si svolgono sullo schermo, poiché la proiezione continua, provoca l’insuccesso» (p. 92). Le riportiamo a nostra volta nel soggetto che pubblichiamo.
In archivio non è presente nessuna scaletta, trattamento o sceneggiatura. È invece presente, nel secondo fascicolo (Za Sog R 49/3), la fotocopia di una lettera inedita di Zavattini a Massimo Ferrara di due pagine manoscritte, datate 06.07.1981, in cui sono esposte alcune questioni relative alle origini del soggetto. In aggiunta Za Corr. A 75 contiene tre lettere originali dattiloscritte di Zavattini ad Alberto Albani, le prime due datate 26.12.1949 e la terza 30.09.1950, sempre riguardanti la paternità del soggetto.
Pubblichiamo nel volume il soggetto A, già edito in Zavattini 2006 (pp. 87-95). Pubblichiamo online la lettera di Zavattini a Ferrara, le lettere ad Albani, il certificato di nomination all’Oscar (ACZ Cart. bianche 69) e altri materiali.
La prima idea per questo soggetto risale al 1944, quando Vittorio De Sica incontra «due ragazzinetti, “Scimmietta” e “Cappellone”, che sbarcavano il lunario lucidando le scarpe ai soldati americani. Di qui il termine con cui li si designava, “sciuscià”, evidente traslitterazione dell’inglese shoeshine» (De Santi 2003, p. 50). Questo incontro porta De Sica a firmare nell’estate 1945 su «Film d’oggi» un servizio sugli sciuscià con fotografie, nomi e luoghi, in cui racconta: «li ho seguiti qualche volta per sentire cosa dicevano e che progetti hanno per il loro avvenire. […] Lo spunto per un film sarebbe questo: i bambini, solamente essi, sentono che la vita che fanno non è quella che dovrebbero fare» (De Sica 1945, pp. 4-5). Zavattini invece sostiene in un’intervista di Melli, dal titolo Ho scritto il soggetto in quarantotto ore: «l’idea di far nascere una storia cinematografica incentrata su poveri ragazzi di strada che resistono per non andare alla deriva […] era venuta, a dir la verità, ad un produttore italo-americano, Paolo Tamburella, che, […] colpito dalle facce impudenti, addolorate, spiritate dei piccoli lustrascarpe […], commissionò il film a De Sica» (Melli 1975, p. 21). Sull’idea del film De Santi ricorda che «una prima traccia del soggetto pare elaborata da Cesare Giulio Viola già prima della guerra, di fatto estranea all’incontro con i due sciuscià, […] era stata scartata da De Sica. Si trattava di un abbozzo incentrato su una figura in fondo convenzionale, quella di un giovane buono e sensibile che per continuare gli studi accetta un lavoro di assistente presso un istituto di corrigendi scoprendo in tal modo il dramma della delinquenza minorile» (De Santi 2003, p. 50). L’idea subisce vari ripensamenti, in un articolo pubblicato su «Intervallo» ne vengono esposti alcuni: «De Sica […] incaricò due giovani scrittori di fargli un soggetto, ed essi fallirono […]. Intervenne poi anche Cesare Zavattini, ed anche lui fallì. Ci pensarono allora Amidei, De Benedetti e Franco Jovine, con un soggetto totalmente cambiato […] anch’essi non soddisfecero il nostro regista. L’incarico passò così a Viola» (Gerolamo 1945, n.n.). Infine, nel luglio 1945, a pochi mesi dall’inizio delle riprese, De Sica chiede nuovamente a Zavattini di intervenire (Caldiron in Zavattini 2006, p. 95).
In quel periodo Zavattini è impegnato nella stesura della sceneggiatura di Un giorno nella vita (Blasetti, 1946) con Blasetti e Genina. Racconta nei suoi diari: «11 maggio 1945. Coletti mi dice: pensa al mio soggetto intanto che ti lavi visto che non hai tempo. E De Sica: pensa al mio soggetto intanto che scendi dal tram. E Bianchi: pensa al mio intanto che vai al gabinetto. Continuo a rifiutare lavoro» (Zavattini 2022a, p. 105). A parere di Zavattini «questo era un film-documento che avrebbe avuto un preciso senso e significato uscendo come specchio dei suoi tempi. Capii, accettai e, rammento, che in quarantott’ore, per lo più di notte, lavorai instancabilmente al soggetto reinventandolo e arricchendolo attraverso conoscenze ed esperienze personali. Stanco e mezzo intossicato da centinaia di sigarette fumate, consegnai il lavoro e di lì a poco ripartimmo per la sceneggiatura in quattro: io, Pagliero, Amidei e De Concini» (Zavattini in Melli 1975, p. 21). Nell’inedita lettera a Ferrara conservata in ACZ , Zavattini aggiunge che De Sica, dopo aver ricevuto le pagine, «le fece leggere subito ai suoi collaboratori, qualcuno fece il viso arcigno proprio al cavallo, che era l’asse portante dell’intreccio, ma ottenne che la sua équipe d’amore e d’accordo si mettesse al lavoro. Io promisi che avrei fatto del mio meglio per offrire un mio ulteriore contributo» (Za Sog R 49/3, p. 2). In una lettera a Marotta del 10 maggio 1946, Zavattini ribadisce di aver scritto il soggetto «in condizioni non comuni, esattamente in quattro ore dietro compenso di 30.000 lire. Alle diciassette mi misi al tavolo […] dissi a De Sica e al suo produttore: posso dedicarvi solo quattro ore oggi nel pomeriggio. Se mi viene l’idea mi pagate, altrimenti no. Telefonami […]. Fui fortunato, in quattro ore scrissi le diciannove pagine del soggetto di Sciuscià con l’intenzione morale che fa da spiedo a tutto il film della solitudine dei ragazzi e con la storia del cavallo come matrice sino dal primo fotogramma di tutti gli avvenimenti sentimentali» (lettera a Giuseppe Marotta in Zavattini 2005b, pp. 136-137).
Per i molti impegni, Zavattini subentra solo successivamente nella stesura della sceneggiatura e inoltre dà dei consigli in fase di montaggio (Zavattini in Gambetti 2009, pp. 133-134). Quando il 27 aprile 1946 esce il film nelle sale, i titoli di testa attribuiscono il soggetto e la sceneggiatura ad autori vari: Sergio Amidei, Adolfo Franci, Cesare Giulio Viola e Cesare Zavattini, in alcuni casi è riconosciuto inoltre il contributo di Ennio De Concini (Bernardini, Gili 1990, p. 204), ma Zavattini ricorda anche Pagliero e Guerrieri (Zavattini in Gambetti 2009, pp. 133-134). Alla stesura della sceneggiatura – avvenuta in due mesi tra luglio e settembre del 1945 – secondo De Santi collaborò anche De Sica (De Santi 2003, p. 50).
Sul problema autoriale del soggetto – e quindi, secondo lui, del vero nucleo del film – venendo accreditato insieme a tutti i collaboratori (anche i più occasionali), Zavattini è tornato spesso. Egli stesso inizialmente approvava questa scelta, come spiega il 15 dicembre 1948 nei suoi Diari riportando un dialogo in cui De Sica gli dice che «io sono un bel tipo, perché sono generoso come nessun altro ma poi qualche volta mi pento di essere generoso come in Sciuscià in cui lui voleva a ogni costo che il mio nome fosse solo e grande come autore del soggetto e io invece dissi che non avevo niente in contrario che i nomi fossero in ordine alfabetico, e che lui per questo si arrabbiò. Dice che [in Ladri di biciclette] non è stato possibile prendere via il nome di Bartolini nello schermo e che lui, De Sica, ha sbagliato certo in una cosa, a mettere tutti quei nomi […], che bisognava mettere casomai, sceneggiatura di Zavattini e De Sica con la collaborazione di Biancoli D’Amico Franci Guerrieri […]. Dice che tutto dalla radice è mio e che bisogna farlo sapere» (Zavattini 2022a, p. 306). Nella già citata lettera a Marotta del maggio 1946, Zavattini riassume così: «purtroppo non appare nel titolo che il soggetto è mio, solamente mio. Con leggerezza permisi che si facesse di ogni erba un fascio» (Zavattini 2005b, p. 136). Quella che Zavattini chiama «leggerezza» è forse anche motivata dal fatto che, pur credendo profondamente al valore politico del soggetto, non immaginava il successo che il film avrebbe avuto: «Non potevamo pensare di certo che avremmo preso, due anni dopo, […] l’Oscar per la migliore sceneggiatura. Intorno a Sciuscià lavorammo in maniera quasi goliardica e perfino imbarazzata, come si fa con certe poesie e certi racconti che, una volta scritti, non si vorrebbero proprio far leggere a nessuno» (Zavattini in Melli 1975, p. 21).
Anche in ragione del premio Oscar, ipotizziamo, diventa importante per Zavattini fare chiarezza sui suoi meriti autoriali, per questo torna spesso sulla questione della sua paternità del soggetto, come nella lettera del 26 dicembre 1949 ad Alberto Albani: «La tua informazione essendo limitata ai soli titoli in testa dei films era naturale che tu ignorassi, per esempio, che autore del soggetto di Sciuscià sono io, e che il principale, anzi il principalissimo autore della sceneggiatura di Ladri di biciclette sono io» (Za Corr. A 75/2a). Zavattini già ricorda a Marotta nel 1946 che «Non solo non lo si può più dire se non in privato, ma si ha il dovere di non dirlo e di accettare il fatto compiuto» (Zavattini 2005b, p. 136). E ribadisce in una lettera del luglio 1947: «A Parigi […] hanno avuto successo tre film in cui c’era il mio nome. Purtroppo Sciuscià, che è stato il successo maggiore, non reca il mio nome come soggettista, come avrebbe dovuto recare» (lettera a Pietro Maria Bardi in Zavattini 2005b, p. 154). Il tema ritorna nelle lettere di Zavattini a De Sica di fine 1948: «Quando ci fu il successo di Sciuscià dicesti a molta gente che il merito era solo mio, dicesti che era ingiusto che altri spartissero gli onori che dovevano venire a me. Allora esageravi perché il merito era tuo e subito dopo c’era il mio per il soggetto e per quel contributo che tu sai alla sceneggiatura. Eri un galantuomo, reagivi con spontaneità» (lettera a Vittorio De Sica in Zavattini 2005b, p. 177).
All’uscita del film la critica accoglie il nuovo lavoro di De Sica come il suo «capolavoro cinematografico» (Calzini 1948, n.n.), riconoscendolo anche come «un documento, un’accusa, una parola spesa a servizio della causa del bene» (Risi 1946, n.n.). Tuttavia, il film viene respinto dal pubblico, che gli concede un «esito commerciale […] appena mediocre» (Valdata 1946, n.n.). Sebbene subisca un tentativo di censura da parte dell’onorevole Cappa, che interviene per «motivi etici e morali» per ritardarne l’uscita (Brunetta 2015a, p. 84), Sciuscià ottiene il Nastro d’Argento per la miglior regia, ex aequo con Un giorno nella vita (Blasetti, 1946). Il film viene distribuito con successo in Francia e negli Stati Uniti e altrove. Nel 1948 gli venne attribuito l’Oscar speciale dell’Academy Award con la seguente motivazione: «La qualità di questo film, nato palpitante di vita in un paese devastato dalla guerra, dimostra al mondo che lo spirito creativo può trionfare sulle avversità» (Caldiron in Zavattini 2006, p. 96).
Secondo Brunetta, Sciuscià ha rappresentato «il momento di trapasso e di salto di qualità » (Brunetta 2003, p. 22) della collaborazione tra De Sica e Zavattini, ma anche il momento in cui il loro cinema antropocentrico – che lavora sul rapporto del singolo protagonista con la storia collettiva, e che usa il pedinamento come strumento di conoscenza – si cristallizza nell’osservazione del mondo infantile iniziata con I bambini ci guardano. Un mondo osservato «come riproduzione speculare di quello degli adulti» in cui la prigione moltiplica i meccanismi di violenza e sopraffazione diffusi nella società (pp. 51-52). Quello che Brancaleone definisce come «accostamento scandaloso» (Brancaleone 2023, p. 73, trad. ns.) tra i bambini protagonisti e il duro mondo esterno è uno dei fulcri su cui si soffermano molte riflessioni, e proprio da lì nascono le suggestioni per il primo documentario di Comencini, Bambini in città (Comencini, 1946) (Parigi 2014, p. 135). Altrettanto importante appare il cavallo come «simbolo dell’infanzia perduta e dell’impossibile libertà: causa prima dentro il soggetto di Zavattini della non resistibile causalità della tragedia. Ma anche traduzione surrealista e poetica dell’esistenza impossibile e tuttavia agognata, vissuta solo a tratti […]. Un’epifania del mondo che si eclissa e svanisce di fronte alla vita vera» (De Santi 2003, p. 53). Il 6 dicembre 1946 Zavattini scrive nei suoi diari: «Amato dice di aver visto Sciuscià e che la sola cosa che gli è piaciuta è l’idea madre del cavallo, magra soddisfazione» (Zavattini 2022a, p. 145). Il cavallo bianco dimostra il carico autoriale del soggetto, come spiega Stefania Parigi: è «un’invenzione zavattiniana che sembra tratta di peso dalle favole, costituisce un eccezionale strumento di difesa contro l’ostilità del mondo esterno e, insieme, un potente mezzo di trasformazione fantastica della realtà. Il bianco non è solo il colore delle fiabe, ma anche quello dell’innocenza. Sulla groppa del candido destriero i due protagonisti di Sciuscià attraversano il degrado che li assedia come a volo d’uccello» (Parigi 2014, p. 131).
Tra i principali elementi che differenziano il soggetto zavattiniano dal film realizzato citiamo, innanzitutto la truffa alla chiromante e la fuga dall’Istituto. Nel film la truffa viene commissionata dal fratello di Giuseppe, che propone ai due di vendere coperte americane su commissione di un uomo che traffica materiali di contrabbando, mentre nel soggetto la truffa è organizzata da un ragazzo che gestisce la borsa nera (chiamato «il cantante»), per permettere ai suoi complici, forse all’insaputa dei protagonisti, di rubare. Nel soggetto come nel film, la famiglia di uno dei ragazzi si arrangia con la borsa nera: è una nota indispensabile per capire il contesto di criminalità e malaffare in cui si destreggiano i due protagonisti, pur nella loro innocenza. Per quanto riguarda la fuga dall’Istituto, invece, la principale differenza sta nella sua riuscita nel film realizzato, mentre nel soggetto fallisce. Nel film riescono a fuggire solo Giuseppe e Arcangeli – l’equivalente dello «studente liceale» del soggetto – e questo fa parte del dissidio tra i due protagonisti, perché Pasquale, per non concedere a Giuseppe di arrivare al cavallo per primo, li fa raggiungere dalle guardie. Nel soggetto che pubblichiamo, invece, la fuga non riesce e la permanenza in Istituto diventa logorante, con una serie di piccole situazioni in cui si alimenta l’odio reciproco tra Pasquale e Giuseppe, nato su basi false e sul risentimento. Nel soggetto, solamente a fine pena i due riescono a recuperare il cavallo. Nel finale del film Pasquale raggiunge Giuseppe e inizia a frustarlo (nel modo che entrambi subivano nell’Istituto), Giuseppe per schivare i colpi cade dal ponte su cui si trovano e muore sbattendo la testa. Nel soggetto di Zavattini, invece, il litigio nasce rispetto a chi deve salire prima sul cavallo, e la morte di Giuseppe è accompagnata da una chiusura morale su «i piccoli, che abbiamo visto per tutto il film procedere soli senza che mai l’occhio dei grandi si sia fermato su loro per cercarne il nome, il cuore» (Za Sog R 49/2, p. 20). Tanto il soggetto quanto il film valorizzano infatti l’innocenza e l’ingenuità dei bambini, assieme alla denuncia di un mondo adulto crudele, definito nel soggetto «brutta umanità» (p. 7).
AS/MM