Diversi uomini decidono di passare tre giorni in un convento di gesuiti per intraprendere un percorso spirituale con voto di silenzio, una pausa dalla giungla urbana. Ben presto però giungono telegrammi d’amore e d’affari dall’esterno, un portafogli viene rubato e i partecipanti iniziano a infrangere la regola. Il derubato aizza gli altri uomini alla caccia del ladro, finché non scopre che il portafogli era in camera sua, fra il muro e il letto. Nell’ultima predica, il prete gesuita accomuna implicitamente l’uomo accusato di furto a Gesù, facendo pentire tutti delle loro accuse.
Dati d’archivio. Za Sog R 59/5 contiene le fotocopie del soggetto originale dal titolo Tre giorni sono pochi pubblicato, nel luglio del 1953, su «Il soggetto cinematografico»: 6 pp. fotocopiate con copertina, quattro pagine di soggetto redatte però con fotografie e pubblicità non relative al film. In ACZ Cart. rosse 405 è disponibile il numero originale e integrale della rivista.
Rifacendoci alla semplice introduzione presente nella rivista possiamo attribuire a Cesare Zavattini l’esclusiva paternità del soggetto da cui parte la libera ispirazione del film La voce del silenzio (Pabst, 1953). La scrittura della sceneggiatura, invece, coinvolgerà un elevato numero di cosceneggiatori.
Pubblichiamo, sia nel volume sia online, il soggetto unico pubblicato nel 1953 su «Il soggetto cinematografico» (Zavattini 1953c).
Una delle prime tracce di questo soggetto si trova il 17 ottobre 1949, quando Zavattini inserisce nei suoi diari Tre giorni sono pochi come uno dei progetti in progress (Zavattini 2022a, p. 356). Qualche mese dopo, nei primi mesi del 1950, il soggetto diventa più strutturato, tanto da apparire nella lista di film nei confronti dei quali Zavattini si definisce «in movimento», commentandolo così: «mio soggetto che forse farà Chiarini con la Cines. Buono» (p. 375). Le aspettative dell’epoca non vengono confermate, e il progetto andrà in mano al regista Georg Wilhelm Pabst per una coproduzione italo-francese della CINES insieme alla Franco London Film. Il passaggio cruciale del progetto avviene nella stesura della sceneggiatura che, come ricordato spesso − nei titoli del film e nell’introduzione del soggetto pubblicato, passando per i commenti critici − nasce da una «libera ispirazione» a partire dal soggetto di Zavattini. Il film infatti risulterà completamente diverso, ad esclusione di alcune invarianti che permangono come il convento, i gesuiti e qualche generico tema attorno a questioni etiche, morali e spirituali.
Alla sceneggiatura collaborano moltissimi nomi: Giuseppe Berto, Pierre Bost, Oreste Biancoli, Tullio Pinelli, Ákos Tolnay, Giorgio Prosperi, Roland Laudenbach, Bruno Paolinelli, Bonaventura Tecchi, Franz von Treuberg, Peter Tompkins e lo stesso regista, ma un controllo incrociato di varie fonti fa emergere anche altri nomi, come Brunello Rondi, Gian Luigi Rondi e Jean Cocteau (Muscio 2003b, p. 339).
L’alto ed eterogeneo numero di collaboratori si colloca d’altronde nel periodo a cavallo tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta, in cui il peso sociale del cinema italiano acquista particolare importanza grazie alla risonanza mondiale del neorealismo. In questi anni sono molti i registi stranieri, soprattutto francesi, chiamati a dirigere film di produzione italiana. Insieme a nomi come René Clair, Julien Duvivier e Jean Renoir, anche Pabst partecipa a tale rinnovamento della «tradizione culturale del “viaggio in Italia”, portando il suo sguardo sul nostro paese» (De Giusti 2003, p. 12). Questa coproduzione, quindi, nella prospettiva storica, spiega anche la presenza degli attori francesi Jean Marais, Daniel Gélin e Frank Villard (doppiato nell’edizione italiana da Arnoldo Foà), affiancati ad attori italiani come Aldo Fabrizi, Paolo Stoppa e la scrittrice Goliarda Sapienza. La produzione di natura internazionale richiama l’interesse della stampa che evidenzia, negli ultimi mesi del 1952, un entusiasmo per i registi stranieri che girano in Italia: alcuni articoli di cronaca raccontano il soggiorno di Pabst, il suo appartamento a Roma, la sua carriera, le città che ha visitato. Vengono pubblicate interviste con titoli come Pabst all’italiana (Lombardi 1952, n.n.), nelle quali si evidenzia anche l’apporto di Zavattini alla scrittura del soggetto del film. Quest’ultimo viene presentato come un prodotto molto diverso, anche nel titolo, in cui il nome di Zavattini sembra legittimare l’operazione.
All’uscita nelle sale, il tema più commentato del film è quello religioso, con il tentativo di andare a «caccia di coscienze» (Solmi 1953, n.n.), o la capacità di «contrapporre un mondo corrotto a una vita piena di ideali, più precisamente mistica e contemplativa» (Aristarco 1953a). Si riconosce un risultato di «alto impegno», cui tuttavia si affianca «qualche dubbio sull’autenticità dell’ispirazione di Pabst», con la rappresentazione di un tormento forse «più proclamato che sentito» (Colombo 1953). Un altro dei problemi trattati è proprio il rapporto con il soggetto di Zavattini, nel quale viene riconosciuto, a differenza del film, un racconto «più umano: più cristiano, più semplice e chiaro nelle premesse e nelle conclusioni» (Aristarco 1953a, n.n.), così da evidenziare differenze sostanziali «eloquenti, che parlano da sé» (Aristarco 1953b, n.n.). Negli anni successivi, De Giusti lo ricorda come «un film diseguale, ma non privo di bagliori» (De Giusti 2003, p. 12). Invece per Mereghetti è «riconoscibile tutta l’ipocrisia della più retriva morale cattolica, preoccupata soprattutto di esaltare il mito del sacrificio e dell’espiazione» e si salva solo per un’ipotesi: «se fosse all’origine del Todo Modo sciasciano?» (Mereghetti 2022, p. 7345). Per gli storici del cinema La voce del silenzio resta uno dei «progetti di qualità» (Muscio 2003b, p. 339) a cui ha collaborato Zavattini a inizio anni cinquanta, insieme a film come Un marito per Anna Zaccheo (De Santis, 1953) e Siamo donne (Guarini et al., 1953). Nei confronti di Pabst, invece, si denuncia l’«esplicita rivelazione della decadenza totale dell’artista» (Groppali 1983, p. 100).
Tornando al soggetto di Zavattini, rileviamo numerose differenze con il film realizzato. Nella versione di Pabst la vicenda non si sviluppa esclusivamente nel convento, ma apre costantemente a flashback per addentrarsi nelle storie dei protagonisti. I quali sono totalmente differenti dal soggetto e condividono tra loro solo la difficoltà e il bisogno di partecipare agli esercizi spirituali organizzati dai gesuiti. Il droghiere, l’amante, il golfista, il musicista, l’avvocato nel film di Pabst diventano così un fabbricante di candele (avaro, mellifluo e bigotto), un uomo politico (già capo dei partigiani, con il rimorso di aver sacrificato la vita di tre innocenti in un atto di sabotaggio), un reduce di guerra (malato e creduto morto, tanto che la moglie ha una nuova famiglia), un romanziere (a cui viene attribuita la responsabilità morale delle colpe commesse da minorenni pervertiti che hanno letto i suoi libri) e un ladro (che si mescola agli altri per sfuggire alla polizia). Nulla nel film ha a che vedere con la presunta rapina nella stanza di uno dei partecipanti, e nemmeno i personaggi si trovano a interagire particolarmente tra loro. Sono invece le singole vicende (riproposte anche in flashback, fuori dal convento) a essere centrali, insieme ai loro tentativi di redenzione quasi tutti in via di fallimento. Alle vicende individuali il film intreccia il dramma di un giovane sacerdote, sopraffatto dal dubbio spirituale e da una crisi vocazionale, che diventa un filo conduttore del racconto e permette un finale di speranza.
MM/AS