Il film si propone di ragionare sulla domanda “Chi è l’uomo?” a livello filosofico e pragmatico, fra poesia e scienza. Per farlo attraverso il cinema ci si propone di mostrare atti quotidiani (respirare, mangiare, fare l’amore, parlare) e di riflettere su di essi a partire dalla domanda del film.
Dati d’archivio. Collocazione: Za Sog NR 37/3 contiene: progetti del film dattiloscritti A) 6 pp., Progetto per un film: L’uomo 67; B) 6 pp., Progetto per un film: L’uomo (anche: L’uomo 69 – anche: Luomoluna); C) 5 pp., Progetto per un film: L’uomo, L’uomo 69, L’uomoluna.
Il soggetto A è un dattiloscritto senza correzioni che si apre con la dicitura “Progetto per un film” e si intitola L’uomo ’67. Il soggetto B è una copia senza correzioni del soggetto A, che integra, sempre dattiloscritti, due titoli alternativi: L’uomo ’69 e Luomoluna. Il soggetto C è una copia dattiloscritta con i tre titoli, anche se al posto di L’uomo ’67 troviamo solamente L’uomo, che riporta alcune correzioni a macchina, recepite dal soggetto A, pubblicato in Mazzoni (1979: 159-161). Nonostante Zavattini usi nella prima versione del titolo l’anno 1967, il riferimento diretto all’“impresa lunare” e alla data del 21 luglio lo spingono a ipotizzare un nuovo titolo che usi invece il 1969.
Pubblichiamo nel volume e online il soggetto A e online due interviste a Zavattini, la lettera a Grassi e Strehler del 1966 sul soggetto e una lettera a De Sica del 1961.
Si tratta di un altro progetto appartenente al filone zavattiniano del film-inchiesta diverso dal documentario tradizionale: “Non è la prima volta che la macchina da presa fa la sua inchiesta sull’uomo […] è un film domanda […] in cui si deve vedere, come sotto a una lente che cosa provoca nell’animo dell’uomo oggi una domanda come questa” (Soggetto A: 3-5). In questo caso però, una lettera del 1966 a Grassi e Strehler contiene la proposta di trasformare questa idea in un testo teatrale autobiografico per il Piccolo di Milano, “il secondo lavoro di teatro di Zavattini”. In un’intervista su Paese Sera del 23 novembre 1966, Zavattini afferma di aver pensato alla scrittura per il teatro sin dal 1943, con La conferenza, poi rielaborato per il cinema negli anni successivi e rimasto non realizzato. In quell’occasione Zavattini ragiona sulla sua definizione di “non-teatro”, sull’importanza della provocazione di un modo autobiografico diretto, per andare oltre “la nostra cultura [che] è tutta in terza persona”, piena di “cautele”, e afferma: “Insomma, ha capito il teatro che intendo? Una cosa del tutto antispettacolare ma a suo modo piena di spettacolarità interna, diciamo così, una rappresentazione che si rinnovi tutte le sere e che sia soprattutto un dialogo critico, aperto, disponibile, a tutte le soluzioni sceniche. Ah, se fossimo meno pigri e meno incatenati ai tran-tran quotidiani” (si veda anche Jandelli 2002). A questo proposito Mazzoni parla di “bilancio pubblico, in vitro, certo non per senile presunzione, ma al contrario per l’ansia morale, non nuova per la vocazione diaristica di Zavattini, di cercare una forma di responsabilità che provochi interventi più immediati e diretti – ecco due aggettivi tanto cari a Zavattini – nel cuore dei problemi ‘pratici’ che incombono” (1979: 316).
All’inizio del soggetto Zavattini fa riferimento a un progetto di una dozzina d’anni prima, di cui questo è una sorta di rilancio, stimolato dallo sbarco sulla luna. Si tratta probabilmente di Diario di un uomo (o Una giornata di un uomo), progetto dei primi anni Sessanta in cui si oscillava da un approccio diaristico di tipo autobiografico, ambientando le vicende a Luzzara, alla storia inventata di un maestro elementare. Mazzoni associa in modo esplicito i due progetti, riportando in una sezione della sua ricerca dedicata proprio a L’uomo ’67 anche una lettera del 25 luglio 1961, in cui Zavattini descrive Diario di un uomo a De Sica (1979: 317-322): “Sono preoccupato di dover mettere ora sulla carta queste cose e tu sai perché realizzeremo fra un anno, se tutto va bene; e io ci lavorerò con la costanza di un libro: ma il fatto di dover fin da adesso dire il tema e il suo stile e il suo ritmo, essendo tutti oramai alle porte, con più o meno consapevolezza, di questa diaristica, mi preoccupa. Mi prenderebbe un infarto di gioia se lo facessimo tempestivamente, perché, per una ragione o per l’altra, abbiamo sempre finito col fare anni dopo cose maturate anni prima. Questa è una di quelle” (1979: 321). Nel 1966, quando Uomo ‘67 si sta trasformando in un progetto teatrale per il Piccolo Teatro, Zavattini scrive a De Sica a proposito di conversazioni avute con i produttori Cohn e Levine sull’idea di focalizzarsi su un altro progetto poi non realizzato, Non c’è tempo da perdere: “Sono felice di ogni soluzione che liberi l’Uomo 67 poiché la sua natura è tale, come ti ho spiegato più volte, cioè strettamente autobiografica, intrasferibile, per cui sarebbe tanto meglio con te buttarci su Non c’è tempo da perdere, di non minor impegno e che ci interessa per una Roma da svelare oggi come abbiamo contribuito a svelare quella di venti anni fa” (lettera dell’8 settembre, ACZ D499/373). Successivamente, Zavattini riprenderà temi simili, in forma decisamente autobiografica, ne L’ultima cena (1972).
Za a Mosca, 1968 (foto Victor Masilev)
Per gentile concessione dell’Archivio Cesare Zavattini, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia