L’industriale Albrecht von Gerlach scopre di essere prossimo alla morte e chiama il figlio Werner per nominarlo suo successore. Werner è restio ad accettare, perché sa che la ditta di suo padre è stata tra i sostenitori del nazismo, tanto che Frantz, suo fratello e figlio primogenito di Albrecht, è stato condannato e giustiziato per crimini di guerra. La moglie di Werner, Johanna, attrice impegnata in un’opera di Brecht, scopre che Frantz in realtà è sfuggito all’esecuzione e si nasconde nella casa di famiglia ad Altona, accudito dalla sorella che gli nasconde la verità, descrivendogli una Germania ancora sotto le macerie, povera e umiliata dagli invasori. L’incontro con Johanna cambia la vita di Frantz al punto da indurlo a uscire dal suo nascondiglio. In un tragico finale, morirà insieme al padre cadendo dalle impalcature del cantiere navale Gerlach.
Dati d’archivio. Collocazione Za Sog R 49/5-50/4. La documentazione contiene: la scaletta A (Za Sog R 49/5), Tentativo di scaletta, 4-4-1961, 9 pp. dattiloscritte con poche note autografe e correzioni; il trattamento A (Za Sog R 49/6) dal titolo Altona, trattamento col funerale, di 63 pp. dattiloscritte con numerose correzioni e appunti in forma di scaletta; tre copie diverse della sceneggiatura, la prima intitolata I sequestrati di Altona con l’indicazione «copia ricevuta da Ponti il 29-1-1962, con note di Ponti», di 271 pp. dattiloscritte con alcune correzioni e note presumibilmente del produttore Ponti, la seconda dallo stesso titolo, datata 12 febbraio 1962, di 282 pp. pressoché priva di note, e la terza ancora dallo stesso titolo, datata 25 febbraio 1962, di 285 pp., ricca di note (molte anche sulla copertina di cartoncino). Sono presenti inoltre appunti e note di lavorazione su fogli sparsi e su cartoncino, talvolta di difficile decifrazione.
Il Tentativo di scaletta è suddiviso in 10 macrosequenze, a cominciare dalla prima, ambientata nel 1943, in cui Frantz [con la «t»] Gerlach tortura due contadini russi per estorcere dei nomi («Questa scena è lunga e analitica. In questa scena deve venir fuori contemporaneamente la bestialità germanica e quella individuale» [p. 1]). Lo spettacolo brechtiano recitato da Johanna a Berlino è Terrori e miserie del Terzo Reich, in particolare la scena della serva che teme di venire denunciata dal proprio amante delle SS. L’ultima sequenza prevede invece un finale lieto e alternativo, con Frantz e Johanna «presi da una gioia comune: lei di far vedere e lui di vedere la vita. Montano sull’automobile e vanno come dei ragazzi pazzamente felici» (p. 10).
Nel trattamento A alcune note manoscritte nella prima pagina si chiedono: «Berlino anziché Düsseldorf? Vedere la Berlino di oggi? La loro casa. La porta di Brandeburgo. Dove c’era il Reichstag?» (trattamento A, p. 1). L’incipit è già ambientato nel 1960, durante la recita di Johanna in un «Teatro del Popolo» di Düsseldorf (in Sartre è un’ex attrice mentre nel film è ancora in attività). Nel finale (pp. 59-60) è descritto il funerale del vecchio Albrecht a cui partecipano, oltre a Johanna, tutti e tre i figli: Werner, Leni e Franz [qui e nelle sceneggiature scritto così, più semplicemente]. Ecco la descrizione nelle parole di Zavattini: «Franz ha ormai deciso. Se Johanna fosse disposta, certamente egli la terrebbe con sé come compagna. E l’occhiata che dà a Johanna contiene questa muta interrogazione. Ma Johanna ha soltanto paura. Il suo sguardo passa su tutti quegli stendardi, su tutti quei volti: quelli dei marinai, quelli degli studenti dalle vecchie divise con gli alti gambali, quelli delle autorità, segni di un mondo che credeva seppellito e che invece ora viene avanti con tanta ostile decisione tra squilli di trombe. Quei volti le sembrano tutti nemici, chiusi, impenetrabilmente. Allora scoppia a piangere coprendosi la faccia con le mani. È l’unica che piange dietro al feretro. Qualcuno la guarda e pensa certo che il vecchio Gerlach lascia sulla terra eredità di affetti. Johanna rallenta il passo, sempre di più. A poco a poco tutti la sorpassano. Resta indietro, sola, mentre il corteo prosegue. Lei, piccola, sperduta, di fronte a quella massa nera, compatta, solenne, che si allontana. Dalla sua bocca escono poche parole balbettate, espressione del suo tremendo smarrimento: “Ho paura… Ho paura…”» (p. 60).
Pubblichiamo nel volume la scaletta A e online le note di lavorazione e stralci di sceneggiatura.
Nei diari zavattiniani, il 1961 si apre con un appunto su questo film; scrive infatti il 2 gennaio: «Tutto il giorno Sequestrati di Altona» (Zavattini 2023, p. 31). Tra i suoi numerosi impegni, uno riguarda la sceneggiatura (o «riduzione» come talvolta viene specificato in altre comunicazioni) del film tratto dal dramma sartriano, un’opera legata ai crimini di guerra nazisti, che Zavattini realizza con la collaborazione di Abby Mann, autore del racconto letterario Judgment at Nuremberg da cui è tratto il film di Stanley Kramer (1961).Il dramma teatrale in cinque atti di Sartre era andato in scena nel 1959. L’opera è incentrata sul tema della tortura, ancora attuale in un momento critico come quello della guerra d’Algeria. Non è passato molto tempo da quando il giornalista Henri Alleg ha pubblicato La tortura (1958) e a Parigi si discute aspramente sul terrorismo, sulle reti di aiuto all’FNL, sui metodi sbrigativi utilizzati ad Algeri dai paracadutisti del colonnello Massu.
Nota Gualtiero De Santi nella sua monografia su De Sica: «Le “ragioni critiche” di Zavattini – anche di Abby Mann – sono anch’esse alquanto distanti dalla problematica esistenziale peculiare a Sartre. Tant’è che, pur nella sostanziale conformità alla base testuale, si volgono a illuminare una più diretta ragione storica agevolata in quel periodo da una ripresa dell’antifascismo anche nel nostro cinema, dopo la sua svolta degli anni Sessanta e dopo un tentativo di colpo di Stato clerico-fascista nell’Italia del 1960 (con il governo Tambroni), e dall’inizio di una riflessione autocritica sul nazismo fuori e dentro la Germania. Le ragioni dell’operazione condotta dagli autori risultano essere insomma nobili» (De Santi 2003, p. 127).
In una lettera a Vittorio De Sica del 30 aprile 1961, oltre a informare sulle tempistiche di lavorazione e sulle implicazioni drammaturgiche che il testo comporta, Zavattini non manca di anticipare già le urgenze per i progetti dell’immediato futuro: «Sono qui addosso ai Sequestrati, e se il diavolo non ci mette le corna fra una settimana il trattamento dovrebbe essere finito, e suppongo abbastanza analiticamente da potere poi fare la sceneggiatura in poco tempo. Non certo per valorizzare il mio lavoro, ma per una verità incontestabile, ti ripeto che l’opera di Sartre, per altri versi è grigia, e comunque di alte intenzioni, di alta testimonianza rispetto ai tempi moderni, da un punto di vista cinematografico è una specie di labirinto, e non perché le manchi una dinamica nel senso dei luoghi, dello spazio insomma, che anzi Sartre offre scorribande nello spazio del tempo piuttosto varie e ampie, ma per la sua struttura evidentemente intellettuale, in altre parole poco popolare e carente di contrasti nei quali il processo di identificazione di uno spettatore medio possa facilmente svolgersi. Ma credo che arriverò in porto e soddisfacentemente almeno per me e per te. A Ponti ho lasciato appena intravedere qualche soluzione e mi è sembrato che egli aspetti il mio lavoro con fiducia. Credo anche che questa sarà l’ultima riduzione che io farò di opere altrui. […] Subito dopo Il giudizio tu devi attaccare I Sequestrati. Con il brevissimo intermezzo dell’episodio per il Boccaccio. Dopo I Sequestrati che cosa facciamo? Io debbo saperlo con esattezza».
Più o meno un anno dopo, il film stenta ancora a procedere e, in una nuova lettera a De Sica del 27 marzo 1962, Zavattini chiede di chiarire alcune dinamiche di produzione che a quanto pare rallentano il buon esito del progetto: «L’ultimo copione che ti consegnai ebbe la tua piena approvazione, e anche quella di Ponti. Che cosa è accaduto dopo? Tu mi hai detto che Ponti stava facendo vedere il copione a destra e a sinistra, e me lo hai detto biasimando questa condotta. Invece è risultato che tu ti eri messo improvvisamente ad ascoltare certe critiche di persone che ti circondavano, secondo le quali, nel mio copione, erano traditi certi principi essenziali del lavoro di Sartre. Così tu, che fino a un’ora prima, avevi maledetto Sartre e i suoi principi, diventavi di nascosto alleato dei giovani sostenitori della tesi “più Sartre”. Non ci sarebbe stato niente di male se ciò fosse l’espressione di un tuo convincimento, di qualche cosa che era maturato in te. Ma mi basterebbe ricordarti che cosa dicesti in presenza di Sordi, scaricando tutta la colpa su Ponti, e dichiarando che non te ne importava nulla di quello che gli altri potevano stare facendo, perché tu avresti alla fine girato la mia sceneggiatura. Per ricordarti la confusione della tua condotta, per non dire altro. […] Non basta mettere un maggior numero di frasi di Sartre. Non è il modo di servire Sartre. Tanto è vero che ti ho fatto toccare con mano che non si può impunemente inserire certe battute senza svolgerne poi le conseguenze. […] Guarda il caso Abby Mann […] propone la scena del teatro, voi la trovate bella in sé, egli la scriverà, e vi sfugge che ciò comporterà delle modifiche tutt’altro che superficiali nelle scene seguenti. Ti sfugge che lo stile dell’opera richiede una coerenza che questo sistema di interventi, così poco sorvegliato da te, così poco retto da una visione unitaria, concorde, da un autore, insomma, rende quanto mai problematica».
Lo scoglio principale che Zavattini si trova ad affrontare sembra essere non tanto quello della traduzione di un testo teatrale in uno filmico, quanto il sottotesto filosofico di un autore intriso in ogni battuta di posizioni ideologiche nette, e altresì di non immediata intuizione, soprattutto se abbinate alle teorie dello straniamento brechtiano. Tutto ciò non è facilitato dal rapporto con il cosceneggiatore Abby Mann, che, scopriamo in una lettera del 27 ottobre 1962 di Zavattini a De Sica, a pochi giorni dall’uscita del film in Italia, Zavattini non ha avuto modo di conoscere. Il pretesto per l’ennesimo sfogo è offerto da un’intervista rilasciata da De Sica a Callisto Cosulich per il settimanale «ABC», alla quale Zavattini – nella stessa lettera a De Sica dell’ottobre 1962 – reagisce come segue: «Mi hai detto questa mattina di volere che il mio nome preceda sullo schermo quello di Abby Mann. Sinceramente, ciò non ha importanza, anche nel senso che il lavoro di Abby Mann e il mio risulta così commisto che non è davvero il caso di badare alle gerarchie. Ti è noto, e anche a Ponti, che non rimprovero nessuno di aver chiamato Abby Mann, anzi vi è noto che ho dichiarato più di una volta che l’apporto di Abby Mann secondo me sarebbe stato in ogni caso utile. Caso mai vi rimprovero di non avermi fatto conoscere questo collega un po’ per una ragione di gusto un po’ perché da uno scambio d’idee tra noi due sarebbe derivato qualche vantaggio al film. Si capisce che io [credo], tra l’altro, che se tu avessi girato la scena finale a quattro, che ti duole infatti tanto di non aver girato, e qualche altra scena, come quella tra padre Franz e Leni all’inizio, i personaggi sarebbero stati più caldi e vicini a noi. Insomma, lasciami scrivere che non avevi del tutto torto quando, dopo aver letto il mio copione, gridasti (perché non lo devo dire che addirittura lo gridasti al telefono) che avevo fatto un miracolo, che nessun altro sarebbe riuscito a cavar fuori i piedi dalla foresta sartriana e a metterti nella possibilità di girare con qualche speranza. Non parliamo di miracoli, per l’amor di Dio. Ma quel tuo entusiasmo, di cui Cosulich non ha mai avuto notizia, qualche motivo serio lo aveva. Il film andrà bene, ne sono sicuro, e lo desidero in quanto i difetti, se andasse male, sarebbero per tradizione buttati specialmente sulle mie spalle. Andrà bene, anche se ci sono, mi sembra, delle carenze sul piano dei caratteri e della chiarezza. Ma ha una sua enfasi visiva e polemica che dovrebbe essere assai apprezzata, e delle soluzioni di regia molto fini».
Dopo l’uscita del film nelle sale italiane il 31 ottobre 1962, Zavattini confessa a Valentino Bompiani la sua generale disapprovazione per come il suo lavoro sia stato in buona parte disatteso. Scrive infatti il 16 novembre dello stesso anno, lamentandosi «per il rammarico di queste spropositate sgobbate di giorni, notti e mesi per delle imprese come la riduzione de I sequestrati di Altona di Sartre (aver dedicato centinaia di ore a rendere chiaro e possibile per De Sica, per Ponti, e dintorni, un testo a loro oscuro come la notte, per vederlo poi manomesso, o meglio lasciato manomettere, non per ragioni critiche lo avesse voluto il cielo! Ma per debolezza, confusione e peggio). In altre parole avevo fatto un copione in cui i personaggi facevano più presa su di noi. I caratteri erano più chiari e la stessa Loren aveva una sintassi di sentimenti che le permetteva di spiegarsi meglio. Per questo l’ho mutata da una ex attrice in attrice operante, in attrice brechtiana. Avevo solo sfumato di più la polemica» (Zavattini 2005b, pp. 300-302).
L’accoglienza critica dell’opera è particolarmente negativa, in Italia come all’estero. Scrivono Masi e Lancia nel libro Sophia Loren (1985): «Per questo film Carlo Ponti radunò ben cinque vincitori di Oscar: oltre a De Sica e alla Loren, furono scritturati gli attori Fredric March e Maximilian Schell, nonché lo sceneggiatore Abby Mann (qui affiancato dall’immancabile Zavattini)», e continuano citando la critica dell’epoca: «“I sequestrati di Altona – scrisse Domenico Campana sul settimanale “Gente” – è appunto la dimostrazione di come una riunione ad altissimo livello possa deludere, anche nel cinema. I produttori, specialmente italiani, sono seguaci di una curiosa teoria: pretendono che mettendo una sull’altra cinque persone intelligenti si ottenga un genio” (16 novembre 1962). […] La stampa italiana e straniera fu unanime nel condannare sia la pellicola che la performance di Sophia. “Questo film è un pasticcio senza speranza – scrisse Tom Milne sul “Monthly Film Bulletin” – talmente brutto che non si sa da dove cominciare a criticarlo”. Oltretutto, I sequestrati di Altona, con le sue metafore sartriane e le citazioni da Brecht, è un film che non manca di presunzione. Ciò gli attirò ulteriori antipatie. “Quanto poi a Sophia – affermava Guglielmo Biraghi sulle pagine de “Il Messaggero” – la sua interpretazione è una delle maggiori pecche dell’insieme; dimenticate cadenze dialettali tornano a turbarne la dizione. Atteggiamenti divistici affiorano a pregiudicare la validità di questa Johanna” (10 novembre 1962). Gian Maria Guglielmino, critico de “La Gazzetta del Popolo”, la trovò “assai debole, incerta e spaesata” (1 novembre 1962). I sostenitori de I sequestrati di Altona si contano sulle dita di una mano. Contenuto appare l’entusiasmo di Giovanni Grazzini, nuovo titolare della rubrica di critica cinematografica del “Corriere della Sera”: “Con ammirevole volontà di rinnovarsi, De Sica si è adoperato per infondere calore umano nell’idea di Sartre. […] Ma il testo, nato per un teatro di situazioni, mal sopportava una definizione realistica dei personaggi” (1 novembre 1962)» (Masi, Lancia 1985, pp. 97-98).
Tra le recensioni più spietate spicca quella di Ercole Patti, benché Zavattini non venga mai nominato: «Che idea sbagliata è stata quella di fare un film tratto da I sequestrati di Altona di Sartre […]. Sbagliata innanzitutto per la commedia tortuosamente ideologica poco adatta ad una riduzione cinematografica, sbagliatissima per un regista come De Sica e per un’attrice come la Loren, entrambi umani, sentimentali e vibranti; non si poteva proprio scegliere un soggetto meno adatto ai loro temperamenti. Da questo punto di vista bisogna subito riconoscere che De Sica si è arrampicato sugli specchi per cavarsela facendo ricorso a tutto il suo mestiere; e c’è riuscito. È onesto riconoscergli anche che con quel testo che non gli offriva mai un appiglio per poter fare del cinema come lo sente lui, non poteva fare di più. A teatro I sequestrati di Altona sa di falso e di cerebrale, non vi spira un alito di poesia e tutto quel linguaggio e quei ragionamenti risultano macchinosamente costruiti per esporre un’idea filosofica. Al cinema De Sica ha cercato di alleggerire questa macchinosità sfogandosi con bellissimi esterni e cercando dove gli era possibile di infondere un poco di calore umano a personaggi che ne sono privi essendo soltanto delle idee. Ma questo gli è accaduto solo di rado e il dramma è rimasto quello che è; con l’aggravante che mentre a teatro ha una sua cupa immane coerenza verbale, qui, anche se funziona meglio come spettacolo, appare piuttosto squilibrato e poco convincente» (Patti 1962, p. 85).
Nel suo libro autobiografico, Roberto D’Ettorre Piazzoli (2023) ricorda come alcune scene vennero girate nel teatro brechtiano per eccellenza della neonata DDR, il Berliner Ensemble, dove il personaggio di Johanna interpretato dalla Loren a sua volta veste i panni di Madre Coraggio. Al set, spostatosi da Berlino ad Amburgo, a Tirrenia, collabora anche in veste di operatore Aristide Massacesi (il futuro Joe D’Amato). A punteggiare la narrazione, infine, i numerosi disegni di Renato Guttuso.
A distanza di anni, una recensione di Sergio Grmek Germani (2023, n.n.) conferma la scarsa riuscita del film: «I ricollegamenti al neorealismo sono però forse la cosa meno sincera (anche da parte di Zavattini), e questo film su una Germania costantemente all’anno zero, seppur apprezzato da Olaf Moeller, sembra insensibile anche a quanto di potenzialmente affascinante contiene, come la scenografia fatta di disegni di Guttuso che sembrano ricollegarsi a Caligari, o la musica di Sostakovic o la sovrapposizione di Brecht su Sartre: senza una ragione convinta […] al di là del riecheggiamento culturale». Nelle intenzioni, il film voleva essere un prodotto di una certa importanza, ma rivisto oggi sembra invece scivolare in dialoghi verbosi che a volte rendono ancora più criptico il testo sartriano. De Sica sfrutta carrelli espressionisti per sottolineare i volti algidi dell’alta borghesia tedesca, e Sophia Loren, intrisa di toni mélo, appare piuttosto fuori luogo.
MM