Gec è un operaio della fabbrica di palloncini di Bot, convinto che il mondo sarebbe migliore e la gente si abbraccerebbe se si regalassero giocattoli. Gec, pieno di debiti ma felice, ha un figlio (Marco) vestito poveramente, che vende i palloncini della ditta; il figlio di Bot invece va a scuola e la madre gli indica il figlio di Gec per incitarlo a studiare. Gec vorrebbe far sapere la sua teoria al padrone, ma non riesce a farsi ricevere. A Natale Marco trova sull’albero un anellino di piombo, con un biglietto per cui l’anellino potrà esaudire un solo desiderio a chiunque lo indossi. Una serie di coincidenze fa credere alla famiglia di Gec che la magia funzioni: si sparge la voce, tutti vogliono l’anello, anche Bot che ingaggia un “sicario” per averlo (niente di cruento, ma molte gag). Bot l’avrà, ma prima di capire che non funziona, Gec userà il suo desiderio per salvare il figlio del principale.
Dati d’archivio. Collocazione: Za sog NR 8/4 contiene: cartella 37/I; varianti di soggetto dattiloscritte, molte con correzioni e note manoscritte: A) 1 p. B) 8 pp.; C) 15 pp.; D) 9 pp.; E) 8 pp.; F) 15 pp., Diamo a tutti un cavallo a dondolo, di Cesare Zavattini, datato 1937; G) 27 pp., Diamo a tutti un cavallo a dondolo. Soggetto cinematografico di Cesare Zavattini, datato 1937 [il titolo e l’attribuzione si ripetono per tutte le versioni successive]; H) 28 pp. I) 24 pp. L) 19 pp. (manca delle pagine finali); M) 11 pp.; N) 28 pp.; O) 34 pp.; P) 26 pp.
Il soggetto A riporta il finale originale in cui il padrone scaccia il protagonista (che rischia un calcio nel sedere): la versione che pubblichiamo presenta nel dattiloscritto poche correzioni a penna con piccole aggiunte o cancellazioni, che vengono assorbite nella trascrizione come già in Mazzoni (1979). Il soggetto B, incompleto della pagina finale, è una versione dattiloscritta più antica e più ampia, che presenta dei tagli (segnati a mano): si amplia la parte introduttiva del racconto, nella quale si descrive il protagonista così: “Gec è un tipo sognatore. Figuratevi un De Sica con la riga nel mezzo, i baffetti e la giacca corta” (soggetto B: 12); si taglia uno scherzo fatto da Gec alla moglie che riprende quello raccontato all’inizio de I poveri sono matti (il titolo del libro è citato esplicitamente), nel resto del soggetto poche correzioni aggiungono o sopprimono qualche parola. Come riportato nell’edizione online, viene scritta a mano nelle pagine bianche del soggetto una scaletta estesa che divide il racconto in tredici scene e tre atti, a cui si aggiungono altri spunti. Il soggetto C, incompleto, presenta dei tagli fatti a matita rossa e blu nella prima parte in cui si cancellano delle gag, ad esempio una scenetta di Gec e la moglie che scappano al sentire la sirena della polizia per una sorta di paura generica, nell’ultima pagina una nota tra parentesi recita: “Ricordarsi di I) descrivere tutti i tipi a cominciare da Gec a mano a mano che entrano nelle scene, II) caratterizzare moglie di Gec come un tipo anch’essa molto gentile e dolce con una specie di tic, che le escono frasi pensate internamente a voce alta a sua insaputa”. Il soggetto D è una copia di C che riporta a mano gli stessi tagli. Il soggetto E amplia le descrizioni e le distingue numerando quarantatré scene, il finale di A viene trasformato per provare a passare la censura fascista, con il padrone che rispetto alla proposta di donare a tutti un giocattolo guarda Gec “incerto, ma poi finisce col sorridere. Dissolvenza”; segue una scena di montaggio rapido con “uomini di tutte le classi, di tutte le età, che giocano per le strade come bambini” con omaggi della ditta “Bot & Gec”. Una scena finale vede il padrone, Gec e la moglie al parco, tutti si divertono coi giochi, Bot dice che ama i cigni che vede nel laghetto, Gec invece, stringendosi alla moglie, le confida che lui non li può soffrire. Il soggetto F (che pubblichiamo on line) porta sotto il titolo la data “1937” scritta a penna: è una copia migliore di E che presenta alcune correzioni a mano di singole parole e la cancellazione di qualche frase, nonché della divisione in due atti (il primo tempo finiva dopo la scena venti con la presunta scoperta dei poteri dell’anellino da parte del protagonista e la moglie); tutte le correzioni sono riportate nella versione del soggetto M. Il soggetto F presenta una importante nota autografa alla fine che recita: “Nota dell’autore. Questo finale è del 1937, quando l’altro finale non era permesso [l’intera frase è cancellata con un tratto di penna]. L’autore preferirebbe il finale con Bot che prende a calci nel sedere Gec quando si accorge che l’anellino non ha potere alcuno”. Il soggetto G presenta il secondo finale e sembra una copia di E, ma in realtà è una versione precedente, poiché E incorpora le correzioni a mano di G ed alcune frasi aggiunte, tra cui una espansione della lite tra operai che gonfiano i palloncini risolta da Gec facendo loro usare dei fischietti. Il soggetto H è una copia di G, con altre correzioni a mano e qualche dialogo più sviluppato: anche queste vengono riportate nel soggetto E. Il soggetto I, incompleto, non presenta correzioni; è molto simile a G con qualche variazione per cui si descrivono situazioni che invece in G sono più dialogate. Il soggetto N è una copia di M (che riportava integralmente le correzioni a mano del soggetto F. Anche il soggetto O è incompleto, è una copia di G senza correzioni.
Invece il soggetto L riprende, integrandone le correzioni a mano, il soggetto A, mantenendo quindi il finale originale.
La versione pubblicata nella rivista Il soggetto cinematografico/Le Scenario/The screen play del 1951 (nn. 28-29) è quella con il secondo finale; invece, rimane il primo finale (quello del soggetto A) nella versione in francese pubblicata sui Cahiers du cinéma. Il soggetto A è ripubblicato anche in Mazzoni (1997: 19-26) e in Caldiron (2006: 67-73).
Pubblichiamo nel volume il soggetto A, mentre nel portale online i soggetti A, B, F e la versione pubblicata in francese.
Spiega Paladini (1951: 355-357): “Riappare qui il mondo degli umili e dei sacrificati che aveva già fatto la sua comparsa nei Cinque poveri in automobile, ma direttamente profilato a contrasto con la classe [padronale]”. Un anellino di stagno al dito di un bimbo figlio di un operaio sembra aver poteri di realizzare i desideri, ma tutto accade per casi fortuiti. Il padrone della fabbrica cerca di ottenerlo, poi quando si accorge che è un falso “butta fuori a calci l’operaio”. “Il soggetto piacque a De Sica, che lo comprò nel ’38 [inizia qui la loro collaborazione, secondo Paladini]. Tuttavia il regista […] non poté realizzarlo: la censura fascista, in sede preventiva, espresse parere sfavorevole al trattamento, al quale aveva partecipato Ivo Perilli”. Non piaceva il finale, “ma era chiaro che tutto il tono della ‘storia’, con la viva satira d’un costume e la sua scoperta polemica di classe, contravveniva agl’ideali ‘corporativi’ del tempo […] De Sica lottò a lungo, e senza esito, per ottenere il nulla-osta delle autorità ufficiali” (ib.). Il soggetto “segna per Zavattini un più concreto orientamento verso l’indagine di quella realtà sociale che avrebbe fornito i temi più efficaci alla sua posteriore attività di soggettista” (ib.).
In uno scambio tra De Sica e Zavattini del 1939 si legge: “il Cavallo non ha più galoppato perché è avvenuta una cosa nuova. Camerini s’interessa al soggetto ma non vede me nel personaggio di Gec” (Lettera del 24 agosto 1939, Archivio Cesare Zavattini D499/14); risponde Zavattini: “Sono lieto che Camerini prenda in considerazione il soggetto, ma non vorrei proprio rinunciare a De Sica e vorrei che De Sica non rinunciasse al soggetto. Certo che il De Sica del Cavallo non può essere quello di Grandi Magazzini. Devi avere più di trenta anni, vestire come un piccolo impiegato e avere i capelli a spazzola, per esempio. Io penso sempre a questo De Sica, quando ricordo il Cavallo a dondolo. Mi pare che per questo personaggio impersonato da te io troverei le più commoventi e interessanti situazioni (Lettera di Zavattini a De Sica del 7 settembre 1939, ACZ D499/165); qualcosa sembra funzionare, perché poche settimane dopo De Sica risponde: “Il cavallo a dondolo si girerà in febbraio e marzo prossimi con la regia di Camerini ed io gli sarò vicino come aiuto” (Lettera a Zavattini del 24 settembre 1939, ACZ D499/3).
Ricorda Pellizzari (1998: 157–169): “Scritto nel 1938, venduto a De Sica nel 1939, del soggetto viene annunciata l’imminente realizzazione, ma prima il giudizio negativo della Direzione Generale della Cinematografia (con conseguente modifica del finale: una riconciliazione, anziché una lite, che sa troppo di lotta di classe) e poi gli eventi bellici portano ad accantonare il progetto. Lo riprenderà in mano Blasetti nel 1948, ma subito opterà per un altro soggetto: Prima comunione. Diamo a tutti un cavallo a dondolo accentua gli aspetti favolistici presenti in Zavattini estendendo all’intera vicenda un aspetto magico che altrove riguarda soltanto lo scioglimento, […] due nuclei famigliari (i ricchi e i poveri, i potenti e gli sfruttati) […] le aspirazioni e le invidie […] un intero microcosmo che nutre piccole speranze o pericolosi sogni di grandezza. In una dimensione surreale (che, per non essere tradita, avrebbe richiesto una realizzazione il meno naturalistica possibile, ancora più astratta che in Miracolo a Milano […]) la vita di tutti i giorni è peraltro costantemente presente, con toni di candore e di modestia ma anche con espressioni aspre e ‘cattive’, sino allo sconcertante finale”. Spiega Caldiron (2006: 73) che molti spunti del soggetto “si ritrovano in Totò il buono, il soggetto del 1940, da cui nascerà Miracolo a Milano (De Sica, 1951). Nell’estate 1956 Zavattini ne fa una sceneggiatura con il titolo El añillo per il regista messicano García Ascot”, ma il progetto non si realizza.