Napoli, un venditore di cravatte (Pietro), un padre di famiglia (Antonio), un cameriere (Carlo), un lattaio (Giulio) e un usciere d’albergo (Anselmo) acquistano in società un biglietto della lotteria con cui vincono un’auto di lusso. Di comune accordo, decidono di rivenderla e dividersi il ricavato ma, prima di farlo, ciascuno di loro vuole tenerla per un giorno intero. Ognuno cerca di realizzare, tramite il veicolo, un proprio desiderio, finendo invece per passare una giornata movimentata e piena di disavventure.
Dati d’archivio. Alla collocazione Za Sog R 19/1-5 ACZ conserva nella cartella 19/1 i soggetti dattiloscritti: A) Cinque poveri in automobile «soggetto di Cesare Zavattini», 5 pp.; B) [stesso titolo], pp. 14; C) [stesso titolo], 7 pp.; D) Poveri in automobile, 4 pp., parzialmente manoscritto, con correzioni manoscritte. Nella cartella 19/2 il trattamento A, Cinque poveri in automobile, pp. 39, dattiloscritto con note manoscritte; nella cartella 19/3 la sceneggiatura dattiloscritta A) «Documento film. Cinque poveri in automobile. Soggetto di Cesare Zavattini, regia di Mario Mattoli», pp. 274, con correzioni manoscritte. La cartella 19/4 presenta sceneggiature parziali dattiloscritte tutte datate 03.06.1952: B) Episodio Eduardo «inizio corretto», pp. 56; C) IV Episodio Chiari, pp. 82; D) Episodio Fabrizi «corretto », pp. 60; E) Titina, pp. 287. Infine la cartella 19/5 contiene le sceneggiature dattiloscritte f) Cinque poveri in automobile «soggetto di Cesare Zavattini», pp. 158; g) Secondo Tempo, pp. 147; e le sceneggiature parziali dattiloscritte h) Finale, pp. 22; i) Corridoio grande albergo (interno giorno), pp. 69.
In sintesi troviamo quattro soggetti, un trattamento e tre sceneggiature complete, più sei parziali. Nel soggetto A, intitolato Cinque poveri in automobile, l’auto viene vinta alla lotteria da cinque amici poverissimi e senza nome, «in un luogo qualunque, nell’epoca voluta» (p. 1); alcuni non sono mai andati in auto prima e, col proposito di venderla, decidono che ognuno la userà per ventiquattro ore. Il primo è un barbiere, ex autista sotto le armi, ha famiglia ma vuole incontrare una ragazza, però si dimentica il figlio piccolo in auto, che scenderà rischiando di essere investito; il secondo prende a nolo un vestito costoso per farsi portare al paese natale e riscattarsi, tuttavia i compaesani non si ricordano più di lui; il terzo è un usciere timido, con vecchia madre al seguito; conosce una ragazza sulla spiaggia ma quando lei scopre che l’auto non è sua lo lascia; il quarto è un cameriere che in auto soccorre una donna incinta, portandola in ospedale, ma si scontra col marito geloso; il quinto è un garzone lattaio, preso in ostaggio da un ladro fuggitivo: l’auto finisce in un fosso, vanno in prigione, e infine tornano a casa «a piedi, poveri come prima» (p. 5). Il soggetto B cambia l’ordine degli episodi e si definiscono meglio i cinque amici: vanno dai venticinque anni (Stefano il garzone) ai quaranta (Artemio che fa il giornalaio); restano il cameriere (Antonio), il venditore di cravatte Fabio (quello che ritorna in auto al paese natale) e Vittorio l’usciere: «hanno dovuto mettersi in cinque per comprare un modesto biglietto» della lotteria (p. 7). Si espande il soggetto A con situazioni raccontate con più dettagli e qualche dialogo. Cambiano le vicende del cameriere (che non sa guidare e va a sbattere), e dell’usciere timido, che stavolta sfascia l’auto dopo aver preso a bordo una ragazza da corteggiare e il suo titolare. Il soggetto C, che qui pubblichiamo, è un’espansione in cui si definiscono luogo e anno, Napoli nel 1950, i nomi dei protagonisti vengono cambiati e si ampliano la storia di Pietro che torna al paese, dell’usciere che conosce la ragazza sulla spiaggia e del cameriere Carlo che diventa amico del marito geloso della donna che ha soccorso. Anche il finale è più espanso, con Giulio preso in ostaggio dal ladro e la fuga dalla polizia. Il soggetto D è incompleto, manca la prima pagina, presenta numerose cancellature e correzioni e riscritture a mano nel finale; precede la variante B, la quale riporta e trascrive tutte le aggiunte: il racconto dell’usciere timido Vittorio e del suo principale (Torazzi), che gli “ruba” la ragazza dattilografa appena fatta salire, viene scritto a mano in tre pagine. È possibile ricostruire l’ordine cronologico dei soggetti in questo modo: A (il più breve e più antico), D, B e C.
Il trattamento dal titolo Cinque poveri in automobile espande l’antefatto circa la vittoria del biglietto della lotteria, e amplia il soggetto C con alcune varianti e specificazioni: il finto autista (identificato con Peppino De Filippo) si presta ad accompagnare un amico (Nino Taranto) al paese natale per vendicarsi; Zavattini nomina il paese di Collagna, presumibilmente il borgo montanaro in provincia di Reggio Emilia. Le diverse sceneggiature coincidono quasi completamente con il film realizzato da Mattoli, modificando però per buona parte i soggetti di partenza. Compaiono i diversi attori previsti per il film: Eduardo De Filippo (un magazziniere che fa ritorno al cimitero del paese), Walter Chiari (il facchino), Aldo Fabrizi (il vetturino), e si introduce la figura di una diva di Cinecittà, Colombella, che partecipa a un film in costume ambientato nell’antica Roma. La sceneggiatura A, dopo le introduzioni di ciascun personaggio e la vincita alla lotteria, e dopo la voce narrante del primo episodio che inizia con «È il primo giorno e la macchina tocca a Colombella», è integrata dalla specificazione: «Naturalmente a seconda dell’ordine definitivo degli episodi si dirà “primo” o “secondo” o “quarto”» (p. 35). In effetti l’ordine è già quello del film realizzato, a cominciare, dopo l’introduzione, dall’episodio dell’attrice Colombella («Palombella» nel film) che va a casa della figlia, e poi quello del vetturino Cesare. Tuttavia la sceneggiatura non contiene la scena di raccordo tra primo e secondo episodio presente nel film: i quattro uomini che bevono una grappa in trattoria e discutono su chi dovrà tenere l’auto il secondo giorno (un «venerdì 17»), e lo stesso accade tra il terzo e il quarto episodio. Nell’episodio di Eduardo («Lo Bianco» in sceneggiatura, nel film diventa «Moschettone») e Padella, il paese natale è Rocca di Sotto (nel film sarà Rocca Priora). Le sceneggiature parziali (Za Sog R 19/4) per ogni episodio del film sono intitolate con il nome o cognome dell’attore: Episodio Eduardo, Episodio Chiari, Episodio Fabrizi e Titina; in quella di Eduardo (sceneggiatura B) la voce narrante cita lo stesso Zavattini presentando Padella: «Volontariamente costui, per un senso di sfiducia in se stesso e nella vita, rifiutò di prendere parte attiva all’avventura immaginata da Zavattini. Fra i poveri che ci interessano, non sarà mai il quinto. Consideratelo allora come il quarto dei Tre moschettieri di Dumas» (p. 5).
Anche la cartella 19/5 contiene una sceneggiatura suddivisa in parti: F; G (Secondo tempo); H (Finale); I, incompleta e contenente l’episodio del facchino. La prima parte del racconto, precedente alla vincita del biglietto della lotteria, è più dilatata, ma questa sceneggiatura non si divide in episodi intitolati in base ai personaggi e non prevede, a differenza delle altre, la voce narrante. Tuttavia le quattro parti non sembrano essere cronologicamente coeve: nella sceneggiatura H, contenente il finale, il facchino è chiamato «Walter», mentre nella sceneggiatura I è «Paolo» (come effettivamente sarà nel film). Inoltre, è presente il personaggio di Aldo, che fa il cameriere, a sostituire il vetturino delle versioni precedenti. Le disavventure di Aldo (sceneggiatura F) sono diverse anche dal film realizzato: è introdotto mentre porta dello yogurt a un’inquilina del palazzo dove vive, poi incontra Eduardo e Padella che lo informano che hanno letto sul giornale della loro vincita; i cinque amici convincono il direttore della concessionaria («Sala Automobili»), dove si trova la macchina vinta, ad acquistarla prima di concederla loro per quattro giorni. In una serie di gag, Aldo ritorna alla pensione dove vive, vittima dei rumori degli altri inquilini; quando vuole entrare nell’automobile lo sportello è ostruito da uno che legge «l’Unità»; riesce a partire ma investe una Topolino; si dirige al Pincio dove investe di nuovo la Topolino; poi si reca al cinema dove vede «uno dei soliti documentari sulle gare pubblicitarie americane delle auto votate alla morte, auto che si rincorrono, si rivoltano, si urtano, prendono fuoco, ecc.» (pp. 106-107); dopo altre avventure terminerà la giornata ritornando alla pensione, e si risveglierà il mattino dopo con un bambino adottato.
Pubblichiamo nel volume il soggetto C; online il soggetto A e stralci del trattamento.
Lorenzo Pellizzari ricostruisce la genesi del soggetto: «Stando allo stesso Zavattini, il suo primo vero soggetto cinematografico sarebbe I poveri in auto, scritto in complice collaborazione con Andrea Rizzoli, figlio del suo editore di allora. Angelo Rizzoli glielo acquista e lo propone a Mario Camerini, ma il regista, pur lodandolo, lamenta la mancanza di una vera trama e non se ne fa nulla. È proprio di qui che muovono due costanti dell’opera zavattiniana per il cinema: da un lato il suo frequente polemizzare, ora garbato ora meno, con i realizzatori (anche in nome di un’aspirazione alla completezza, di una vocazione alla paternità assoluta, che resteranno purtroppo quasi sempre tali); dall’altro, la testarda insistenza nel rielaborare e nel riproporre le proprie idee, fino a quando, magari a distanza di decenni, non riescano a giungere comunque in porto (e in questo “comunque” sta talora la fonte di altre delusioni o di risultati non ottimali […]) ecco che il negletto I poveri in auto riaffiora nel 1952 per un film di Mario Mattoli, Cinque poveri in automobile, stesso titolo del soggetto che Zavattini ha nel frattempo elaborato e che pur si discosta notevolmente dalla sceneggiatura a più mani» (Pellizzari 1997, pp. 157-158).
L’idea originale è quindi degli anni trenta (il soggetto scritto con Rizzoli è vagamente composto sulla falsariga di If I Had a Million di Ernst Lubitsch, del 1932), come conferma Paladini nel giugno 1951, descrivendola in questi termini: «Qui si tratta di un’automobile vinta alla lotteria da cinque poveri con un solo biglietto; e ognuno di loro prima di venderla vuole usarla per un giorno, inseguendo un suo particolare assillo d’ambizione o di vanità, di ricchezza o d’amore. Infine l’automobile si sfascia in un fosso, simbolo generico della inconsistenza d’ogni miraggio, ma specifico di quella dei sogni che i poveri nutrono e coltivano con tenerezza nel più profondo di sé, nell’angolo dei desideri irragionevoli e delle segrete follie. Il soggetto subì varie vicissitudini […]. Acquistato nel ’34 dall’editore Rizzoli […], avrebbe dovuto valersi della regia di Mario Camerini, il quale invece preferì realizzare nello stesso anno Darò un milione. Venne quindi ceduto a Francesco Curato dell’Elica Film con varie modifiche ai singoli episodi». Curato lo ricompra anche dopo che sono scaduti i termini di proprietà. La storia si svolge a Napoli anziché a Milano: «due soli episodi sono rimasti com’erano nella prima versione […]. Si dava il caso che quei cinque poveri, penosamente in corsa dietro le loro umane e private fantasie, rappresentassero un’Italia assai diversa da quella retorica e “gloriosa” sulla quale insistevano le celebrazioni ufficiali, rendessero immagine d’una folla assai più vicina alla lotta per il pane e per una modesta felicità, che non al mondo delle parate e del benessere littorio» (Paladini 1951a, p. 356).
Qualche anno dopo rispetto all’idea scritta assieme a Rizzoli, Zavattini è intenzionato a portare avanti il progetto del film, ipotizzando di dirigerlo egli stesso. Scrive infatti a Valentino Bompiani il 30 giugno 1941 informandolo su un possibile esordio alla regia con questo soggetto: «Io esordirò come regista alla fine dell’anno, avendo chiesto lunghi mesi di maturazione sulla carta del soggetto e della sceneggiatura con Cinque poveri in automobile, un mio soggetto del 1935 che porta la firma mia e di Andrea Rizzoli e che, venduto allora a Rizzoli, è tornato nostro. Direi che è un soggetto sicuro per la mentalità dei produttori, tuttavia potrò farmi onore − è certo che non chiederò attenuanti, farò del mio meglio» (Zavattini 2005b, p. 656). Zavattini invece, come sappiamo, avrebbe esordito alla regia soltanto nel 1982, all’età di ottant’anni.
Tra il 9 e il 15 giugno 1952 Zavattini appunta sui suoi Diari: «devo fare la revisione (ultimarla) di Cinque poveri in auto» (Zavattini 2022a, p. 461). Un’acuta riflessione è offerta ancora da Pellizzari: «Gli episodi dei cinque poverissimi amici […], erano soprattutto improntati a buoni e cattivi sentimenti, o meglio a un intreccio fra gli stessi, come è della natura umana (la tentazione adulterina che si trasforma in richiamo all’amore paterno; la vendetta che si muta in pietà; l’amore sincero che si infrange contro l’amore dettato dalle apparenze; la solidarietà umana che viene equivocata in nome della gelosia; la spensieratezza e l’incoscienza che rischiano di volgere in tragedia), mentre il finale era drammatico o almeno non consolatorio: l’auto si sfascia e i poveri resteranno poveri come prima» (Pellizzari 1997, p. 158). Pensando alle differenze tra il soggetto e il film realizzato da Mattoli, dai tratti leggeri e corali, ricordiamo che si allontana dal neorealismo per avvicinarsi all’imminente genere della “commedia all’italiana”, seppur con un andamento fiabesco e alquanto prevedibile. Basti a questo proposito citare i nomi dei numerosi sceneggiatori: oltre a Zavattini, Fabrizi e i fratelli De Filippo, anche Mario Monicelli e Steno (Stefano Vanzina), insieme ad Aldo De Benedetti, Mario Amendola e Ruggero Maccari. Spiega infatti Pellizzari: «nel film di Mattoli si respira un’aria decisamente più “brillante”, un solo episodio − non a caso quello più apprezzato − conserva le caratteristiche dell’originale, la conclusione è “positiva”: i quattro poveri − che negli anni ’50, del resto, non sono tali più di tanto − spartiscono il ricavato della vendita dividendolo con un loro simile che hanno avuto la sventura di investire. Se insistiamo su questo soggetto è perché su di esso insiste buona parte della poetica zavattiniana, se non della sua tematica: i “poveri”, anzitutto, nel loro trascolorare la presenza lirica a presupposto di libertà, da oggetto di commiserazione a soggetto politico di trasformazione o addirittura di rivolta; il rapporto città-campagna; l’altro rapporto individuo-famiglia; le insidie e le prevaricazioni del potere […] “padroni” di ogni tipo e sorta, ma tutti stranamente somiglianti – verrebbe voglia di insinuare – al cumenda Rizzoli); una certa mitologia dei mezzi di trasporto e di comunicazione; infine, non trascurabili, il ritmo da balletto, l’incursione della mimica più sbrigliata, l’intervento di gags surreali (o presunte tali…) che non mancheranno mai anche nei contesti più realistici» (Pellizzari 1997, p. 158).
Come ricorda Steve Della Casa all’inizio della prima monografia dedicata al regista Mattoli, «La vera utopia di Mattoli è stata quella di sognare un cinema costruito esclusivamente sul cast, con tutte le implicazioni che questa scelta comporta. Un’utopia che ha le sue basi nella regionalità e nel dialetto. L’attore dialettale è il vero attore che l’Italia mattoliana può esprimere […]. La regionalità è poi l’araba fenice di più stagioni del cinema italiano: sopravvive senza perdite alle spinte unitarie proposte dal fascismo, attraversa l’epoca del neorealismo come trasversalità (Paisà è anche in questo senso un film chiave) e come aspirazione a un decentramento che ridimensioni il ruolo dell’allora semidistrutta Cinecittà, si affaccia nei temi forti del cinema degli anni ’40, prima di essere soppressa dall’omologazione del pubblico causata dall’evolversi del capitalismo, dalla televisione e dall’emigrazione interna (che produrrà l’unico cinema “italiano” unitario, la commedia non casualmente definita “all’italiana”) » (Della Casa 1990, pp. 7-8).
Oltre ai protagonisti, introdotti all’inizio del film dalla canonica voice off (Eduardo lo spazzino o “mondezzaro”, interpretato da Eduardo De Filippo, l’amico Padella ovvero Aldo Giuffrè, il vetturino Cesare, cioè Aldo Fabrizi, Mariù Palombella − la comparsa di Cinecittà − incarnata da Titina De Filippo, un povero facchino di piano, ossia Walter Chiari), numerosi sono i comprimari: Isa Barzizza, Arnoldo Foà, Raimondo Vianello (citato come «Riccardo Vianello» nei titoli di testa), Alberto Talegalli, Mario Pisu, Carlo Romano, Mario Castellani. Soffermandosi in particolare sul ruolo di Titina De Filippo, non solo come attrice ma anche in qualità di sceneggiatrice, Caprara ricorda: «Non meno importante, anche se raramente citata la sua impronta sulla sceneggiatura a più mani di Cinque poveri in automobile di Mario Mattoli, dove è anche protagonista dell’episodio cucito sulle povere spalle di Mariù Palombella, comparsa di film storici. Il tono amaro del film è il risultato di un finissimo mix firmato da Zavattini, De Benedetti, Eduardo, Monicelli, Maccari e, appunto, Titina che contraddice non poco la vulgata di un neorealismo ormai folcloristico ed annacquato: soprattutto la giornata di Palombella, prima maltrattata da un collerico e trombonesco cineasta e poi ridotta a raccontar frottole sulla propria carriera “divistica”, comunica una tristezza senza speranza ed anticipa la cifra pessimistica di uno dei più bei film di Monicelli, Risate di gioia» (Caprara 2006, pp. 94-95).
Tra le principali novità introdotte dalla trasposizione cinematografica nei confronti dei soggetti di partenza, la più radicale rispetto allo spirito zavattiniano è senz’altro il finale: dopo l’investimento di un uomo, tutti si ritrovano in ospedale, ma l’investito aveva solo una semplice lussazione: tutti concordano di inserirlo nella loro società.
MM